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[:it]Memorie di una Viaggiatrice dello Spirito[:en]Memories of a traveler of the Spirit[:]

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Il libro è un’autobiografia nella quale l’autrice ripercorre tutti i momenti fondamentali del suo cammino spirituale: gli incontri con diversi maestri e con gruppi di diverse scuole esoteriche, le prove iniziatiche, i viaggi esteriori ed interiori, le piccole e grandi realizzazioni spirituali. L’autrice racconta come il cammino spirituale abbia cambiato completamente la sua vita sin da quando, appena adolescente, si è trovata a vivere parallelamente alla crescita reale la sua crescita spirituale. Vengono riportati integralmente gli insegnamenti orali ricevuti, che le hanno tracciato una
mappa di quel cammino che l’ha condotta ad esplorare l’Ignoto.

L’antroposofia, il Raja-Kriya yoga, l’ermetismo e l’alchimia, in una pratica assidua e costante, le hanno rivelato profonde analogie con lo sciamanesimo di Castaneda e la Quarta Via di Gurdjieff: percorsi che, pur apparentemente diversi, sono confluiti coerentemente in un cammino unico e personale, lungo il quale ogni incontro, ogni libro e ogni insegnamento hanno avuto importanza. Gli insegnamenti dei vari maestri si sono via via riuniti come ad essere frammenti destinati a formare un quadro completo e ricco di significati. E l’Ignoto, sempre imprevedibile e sorprendente, ha condotto l’autrice lungo sentieri prima inimmaginabili. Se diventa pratica costante, vissuta in ogni attimo dell’esistenza, la spiritualità si intreccia profondamente con la vita, dando origine a misteriose coincidenze e incredibili esperienze, delle quali viene data ampia testimonianza in questo libro.

HERMELINDA
Memorie di una Viaggiatrice dello Spirito
Sulla via dello yoga, tra i sentieri dell’ermetismo, dell’alchimia e dello sciamanesimo.
Harmakis Edizioni
Collana: Saggi
Formato: 200 x 280
Confezione: Brossura
Pagine: 384
Prezzo: 29,00
ISBN 978-88-98301-25-6

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The book is an autobiography in which the author recounts all the key moments of his spiritual journey: meetings with various teachers and groups of different esoteric schools, the initial trials, the outward and inward journeys, small and great spiritual realizations . The author tells how the spiritual path has completely changed his life ever since, as a teenager, has had to live alongside the real growth his spiritual growth. They shall be reproduced verbatim the oral teachings received, which have drawn a map of the journey that has led her to explore the unknown.


Anthroposophy, the Raja-Kriya yoga,  shamanism and alchemy, in a constant and assiduous practice, revealed the profound similarities with shamanism of Castaneda and the Fourth Way Gurdjieff: paths which, although seemingly different, are converged consistently in a unique and personal journey, along which every encounter, every book and every teaching they have mattered. The teachings of various masters have gradually gathered as fragments to be designed to form a complete and full of meanings. And the unknown, always unpredictable and surprising, he led the author along paths previously unimaginable. If it becomes constant practice, experienced in every moment of existence, the spirituality is deeply intertwined with life, giving rise to mysterious coincidences and unbelievable experiences, which are given ample testimony in this book.


HERMELINDA
Memories of a traveler of the Spirit
On the path of yoga, through the paths of hermeticism, alchemy and shamanism.
Harmakis Editions
Series: Essays
Format: 200 x 280
Packaging: Paperback
Pages: 384
Price: 29,00
ISBN 978-88-98301-25-6

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Una civiltà evoluta? di Valentino Bellucci

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Una civiltà evoluta?

 Mi sono sempre chiesto da dove sia nata tutta questa sete di sangue e di violenza dell’uomo europeo; altre civiltà ne sono esenti, ancora oggi, e vivono in modo semplice e pacifico, in armonia col cosmo. La studiosa della Preistoria, Marija Gimbutas, scoprì che circa 5000 anni fa delle tribù provenienti dall’Europa medio-orientale invasero le culture del Mediterraneo: “…queste tradizioni millenarie furono troncate di netto: città e villaggi furono rasi al suolo, sparì la magnifica ceramica dipinta, così pure gli altari, gli affreschi, le sculture, i simboli…[…] Le culture antico-europea e Kurgan erano agli antipodi l’una dell’altra. Gli antichi europei erano orticoltori sedentari, inclini a vivere in grandi agglomerati ben pianificati. L’assenza di fortificazioni e di armi attesta l’indole pacifica di questa civiltà egualitaria, che era matrilineare e matrilocale. Il sistema Kurgan era composto da unità di mandriani patrilineari, che vivevano in piccoli insediamenti stagionali e allevavano i loro animali in vaste aree.

Un’economia era basata sulla coltivazione, l’altra sull’allevamento e la pastorizia; le ideologie a esse sottese erano opposte. Il sistema di credenze antico-europeo si concentrava sul ciclo agricolo di nascita, morte e rigenerazione, incarnato dal principio femminile, una Madre Creatrice. L’ideologia Kurgan, come si evince dalla mitologia comparata indo-europea, esaltava gli dèi virili, guerrieri eroici, patroni del fulmine e del cielo…”[1]   C’è del vero nelle scoperte archeologiche e etnologiche della Gimbutas, ma manca una visione più ampia, la visione ciclica. Se le tribù Kurgan hanno invaso le altre culture, pacifiche e dedite all’agricoltura (e quindi sostanzialmente vegetariane), sterminandole – ciò è successo non solo a causa della “addomesticazione del cavallo [che] sembra aver prodotto uno squilibrio tra l’approvigionamento di terreni di pascolo nelle steppe della Russia meridionale e il bisogno di cibo per le mandrie che diventavano rapidamente sempre più numerose.”[2] ma soprattutto a causa di una visione della natura come parte separata, da dominare e sottomettere. I gruppi Kurgan avevano già una struttura sociale che avvalorava il più forte e rituali con sacrifici umani…E avevano perso una visione del tempo ciclica, che le culture della Dea Madre invece seguivano; è con una visione della propria storia come linea separata dalle ciclicità del cosmo che nasce l’europeo violento, dominatore, colonialista, come ha intuito acutamente Jean Servier: “ Differiamo dalle civiltà tradizionali perché vogliamo concepire la storia come un corso lineare…[…] …per esse infatti il passato non è insondabile né l’avvenire misterioso, poiché entrambi sono pagine di uno stesso libro. Tutti gli uomini hanno coscienza di essere i segni scritti sulle pagine di questo libro, foglie di uno stesso Albero della Vita…”[3] Ma dai Kurgan in poi l’Europa sceglie l’Albero della Morte, con tutte le continue guerre per il potere che la storia “lineare” ci racconta, con tutti i genocidi, fino alla situazione attuale, dove all’uomo occidentalizzato non resta che rivolgere quella follia distruttiva su se stesso; il disastro ecologico è quindi il culmine di un tipo umano, che da millenni vive in una costante separazione psichica dal resto dell’armonia cosmica…In fondo gli allevamenti intensivi non potevano che essere la logica follia di una visione dell’animale come oggetto, che già i Kurgan avevano abbracciato. Ma questo disastro rientra anch’esso in un ciclo.

Questo è ciò che gli studiosi stessi ignorano, poiché rifiutano la storia ciclica contenuta nei Purāna, testi enciclopedici di una civiltà avanzatissima sotto ogni aspetto. L’umanità attraversa quattro epoche, con diverse caratteristiche, e l’epoca attuale è denominata Kali-Yuga, cioè età (yuga) perdente (kali), dove domina la violenza e l’autodistruzione. E tale epoca, secondo i calendari vedici, ha avuto origine proprio 5000 anni fa, quando la Gimbutas fa risalire la discesa devastante dei Kurgan…coincidenza? No, semplicemente il cosmo è, appunto, un ordine e in tale ordine le epoche si avvicendano, nel loro eterno ciclo, fino alla dissoluzione dell’universo, anch’essa parte di un ciclo più grande. Quindi non basta, come afferma Riane Eisler, “il passaggio dall’androcrazia alla gilania [che] contribuirebbe a far cessare la politica di dominio e l’economia di sfruttamento”[4], poiché  recuperare il ‘femminile sacro’ senza avere un diverso paradigma del ‘maschile sacro’ è ugualmente alienante e inefficace, come le varie correnti del femminismo e dell’ecologismo hanno dimostrato. Per uscire dall’incubo del Kali-yuga occorre recuperare la radice stessa della ciclicità sacra e la conoscenza immensa che la civiltà vedica ci offre…conoscenza materiale e spirituale insieme. Ho altrove[5] dimostrato che l’antica civiltà vedica non è stata il prodotto delle ‘invasioni ariane’ (sempre legate al paradigma Kurgan) ma è stata una civiltà planetaria dove maschile e femminile erano in perfetta armonia e ogni ordine sociale (varna) serviva all’equilibrio del Tutto.

Nei capitoli di questo saggio ho analizzato i vari aspetti della degenerazione del Kali-yuga, degenerazione che investe la scienza, l’arte, la religione, la medicina…Lo studioso Josipovici così ha sintetizzato la situazione attuale: “ Ed ecco il risultato: trascinato, poi dominato da bisogni materiali sempre nuovi, schiavo di leggi economiche incontrollabili, costruttore di industrie che distruggono la vita, accade che la natura torturata non solo abbia smesso di dargli il minimo sostegno, ma gli si rivolti contro…”[6] Tutti i popoli del pianeta hanno guardato con tristezza alla ‘follia dell’uomo bianco’, follia che non sembra arrestarsi ma accelerare; nel Bhagavata Purāna questa epoca è descritta così: kaler dosa-nidhe, ovvero: un oceano di errori; il testo vedico descrive nel dettaglio la degenerazione fisica, morale, politica, economica e persino ambientale! Eppure abbiamo la possibilità di una via d’uscita, se lo vogliamo.

Valentino Bellucci



[1] M. Gimbutas, Kurgan. Le origini della cultura europea, Medusa, Milano 2010, pag. 72 e 73.

[2] Ivi., pag. 74.

[3] J. Servier, L’uomo e l’invisibile, op. cit., pag. 397 e 401.

[4] R. Eisler, Il Calice e la Spada. La civiltà della Grande Dea dal Neolitico ad oggi, Forum, Udine 2012, pag. 352.

[5] Cfr. V. Bellucci, Le strutture sociali del varnāshrama-dharma, Solfanelli, Chieti 2014.

[6] J. Josipovici, Il fattore “L”, Mediterranee, Roma 1976, pag. 59.

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IL MITO DI OSIRIDE

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Osiride nella teogonia eliopolitana appartiene alla quarta generazione di Dèi, in quanto figlio, insieme a Seth, Iside e Nephtys o Neb-het, di Geb e Nut, la Terra e la Volta Celeste, a loro volta generati da Shu e Tefnut, il Potere dell’Aria e dell’Umidità, portati in atto da Atum, prima. Manifestazione autocreatasi dalla Potenza del Nun, l’Oceano Primordiale. Solo Osiride ed i suoi fratelli sono nati dal rapporto sessuale (se così si può dire) tra gli Dèi, poiché le tre generazioni precedenti sono originate per progressiva individuazione del Principio sul piano dell’esistente. Il mito di Osiride è ben conosciuto, per cui ricordiamo soltanto due particolari che troviamo in alcune versioni e su cui ritorneremo più avanti: Osiride sarebbe stato invitato da Seth ad un banchetto nel corso del quale egli si sarebbe ubriacato, fatto che facilitò al fratello l’ucciderlo o rinchiuderlo in una cassa a seconda delle varianti testuali; altri testi riferiscono che in stato di ebbrezza Osiride violentò la sorella Neb-het, sposa di Seth, dalla quale ebbe il figlio Anubis (il quale quindi sarebbe il fratello maggiore di Horus).

In tutte le versioni comunque Iside recuperò tredici parti del corpo di Osiride fatto a pezzi da Seth (non venne ritrovato il suo fallo, mangiato da un pesce) e li riunì con l’aiuto della sorella Neb-het, per rivivificarli con un atto magico e generare in tal modo Horus. Nei Testi delle Piramidi si trovano tracce però di un differente mito: Osiride sarebbe “caduto” nel fiume o città o regione di Nedit, situata sul Nilo vicino ad Abydos, per opera di Seth, e ritrovato “giacente sul fianco” da Iside: “Il Grande è caduto sul suo fianco, colui che è in Nedit è stato abbattuto” (par. 819); “La tua sorella più giovane [=Iside] è colei che ha raccolto il tuo corpo, che ti ha chiuso le mani, ti ha cercato e ti ha trovato steso sul fianco sulla sponda del fiume Nedit” (par. 1008);

“Iside e Neb-het,  hanno trovato Osiride, suo fratello Seth lo aveva gettato giù a Nedit” (par.1256); “Osiride è stato gettato giù [o deposto?] da suo fratello Seth, ma egli è colui che è in Nedit” (par. 1500). Ricordiamo che i Testi delle Piramidi risalgono alla V e VI Dinastia, e ovviamente la loro antichità è di gran lunga superiore alle testimonianze su Osiride che ci sono pervenute dal Medio e Nuovo Regno, per non parlare del periodo greco-romano, per cui sarebbe interessante approfondire il significato di questa versione.

Quello di Osiride è un mito di morte e di rinascita, affine a quello di molte divinità mediterranee, come Adone, Attis, Dioniso, ma ne differisce per un elemento molto importante: Osiride non ritorna nel suo stato originario di Sovrano dei viventi, quale era stato nominato dal padre Geb, ma diviene “il Signore degli Occidentali”, cioè dei defunti, cedendo al figlio Horus il potere sulla terra. Avviene così una mutazione di stato, passando egli dal piano della realtà manifesta al piano infero: in altre parole, è un Dio che non ha più il potere creatore, e questa condizione è adombrata dalla perdita del fallo, simbolo del potere di generazione. A sottolineare il suo stato di Signore dell’Aldilà Osiride viene rappresentato sempre mummiforme, cioè incapacitato ad agire.

Ciò nonostante, egli fu una delle maggiori divinità dell’Egitto antico, e la sua progressiva affermazione quale divinità del ciclo generativo e quindi della morte e resurrezione di contro a Râ, il Sole mai sottoposto a decadimento e morte, fu probabilmente la conseguenza di quel processo di “democratizzazione dell’Aldilà” iniziato nel Primo Periodo Intermedio e poi proseguito attraverso un plurimillenario percorso fino a sfociare nella religione misterica di Serapis in epoca tolemaica e poi romana. E’ con l’Egitto ellenistico dei Tolomei che i rituali osiriaci arcaici, incontrando la nuova mentalità spiccatamente antropocentrica proveniente dalla Grecia, si trasformano in veri e propri Misteri, affini per struttura e contenuti a quelli che possiamo definire “classici”. I quali costituirono l’aspetto esoterico del culto di alcune divinità greche ed orientali.

Tratto da Anemos- La Vita è un Soffio di Leonardo Lovari

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L’ebraico geroglifico

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L’importanza delle radici e la distanza tra l’ebraico del testo sacro e l’ebraico corrente sono indici di una componente geroglifica dell’ebraico antico . Tale componente dovette svilupparsi , con ogni probabilità, durante i quattro secoli dell’esilio di Israele in Egitto ( tra il XVI e il XIII sec. a.C), poi venne dimenticata dopo il ritorno nella terra promessa. In Palestina il modo di pensare connesso alla lingua geroglifica era divenuto inutile e poco pratico.

Il “segreto” delle lingue geroglifiche , consiste nel fatto che :

1) Le lettere delle lingue geroglifiche avessero ciascuna, un valore fonetico e insieme un significato compiuto,

2) Per conoscere davvero una lingua geroglifica bisogna conoscere perfettamente i significati delle lettere, e saperli interpretare, così da avere il senso intero , originario.

In egizio e in ebraico , il senso delle parole erano tre. Un modo per parlare, un modo per significare, e un modo per nascondere i significati. Oggi si indicano in livello letterale, livello figurato, e livello sacro. Il livello letterale era usato nel linguaggio corrente e doveva essere chiaro e concreto. Il livello figurato , le parole non indicavano le cose concrete, ma il loro valore metaforico cioè ciò che può rappresentare.
Il livello sacro le aprole divenivano realtà del mondo dello spirito e degli Dei. In ebraico , al primo e secondo livello la funzione delle lettere dell’alfabeto è solo fonetica, mentre il terzo livello è quello in cui le lettere mostrano che cosa si nasconda nelle parole.

Così , “luce” in ebraico è ‘aOR: la prima lettera, l’aleph , è il segno della potenza, la lettera O è il segno dell’intelligenza, la lettera R è il segno del movimento. Il significato geroglifico della luce è dunque ” la potenza del comprendere, che ha cominciato a muoversi”.

Nelle versioni consuete della Bibbia , le parole e i nomi vengono tradotti solo al primo livello, sporadiche incursioni nel secondo livello, questo perchè sono fatte da traduttori che non conoscevano la componente geroglifica dell’ebraico.

Leonardo Lovari.

Fonti: La creazione dell’Universo – Igor Sibaldi.

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La Geografia dell’Oltretomba Egizio

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Tramite le formule è possibile delineare non solo la geografia del cielo, anche se non in modo preciso, ma anche gli elementi che si trovano all’interno. Il cielo, infatti, presenta sia strutture sia creature, sebbene le prime siano decisamente poche. Sono, infatti, citati solo due santuari:

• Il Recinto di Horus appartenente al Cielo.
• La Casa del Re appartenente al Cielo.

Il mondo celeste presenta le medesime caratteristiche della terra, anch’esso infatti ha dei punti cardinali e dei limiti, inoltre può essere circumnavigato. Sappiamo che a ogni lato è presente un’entrata, la quale non serve solo per l’accesso delle divinità e del faraone defunto, ma anche per bloccare l’ingresso agli stranieri e alla gente comune. Il cielo presenta un limite superiore, il quale può essere raggiunto da tutte le creature, e Sethe lo identifica con il termine iskn, anche se sembra essere una regione occidentale e forse presente anche a Est. Ad esempio:

Pyr. 1016c. iskn pt
Lo iseken del cielo

Il Sole scende sulla barca notturna da questa regione e sempre da qui richiama il sovrano affinché assurga al ruolo di stella del mattino. Il termine iskn, all’interno dei Testi delle Piramidi, sembra delineare un corpo fatto d’acqua o una striscia di terra, infatti:

Pyr. 1170a. rdi.f’ .f ‘ir.k m iskn n pt.
Egli porge il suo braccio a te nell’iskn del cielo.

In questo specifico a iskn segue il determinativo del canale, mentre ha tutt’altra definizione nei Testi dei Sarcofagi dove viene utilizzato come determinativo di aree desertiche o straniere.
Un’altra regione nominata nei testi e situata i margini del cielo è w’rt, la quale può essere riferita a uno o più elementi, tradotta come “landa desertica”. In un caso vediamo:

Pyr. 1168b. ‘h’ r.f’ ir w’rt wrt.
Attendilo alla grande w’rt.

Solamente in Pyr. 1201d si suggerisce che la w’rt possa avere una localizzazione settentrionale perché è posta in relazione con le ixmw sk, le Stelle Imperiture della fascia Circumpolare. Nei Testi dei Sarcofagi di Medio Regno (CT IV 359b) invece si dà una localizzazione di w’rt più precisa, viene infatti collocata di fronte a la iskn, che abbiamo visto essere posta idealmente a Occidente.

Tra le regioni non mancano i campi, sht, che abbiamo già avuto modo di vedere in precedenza. In particolare riconosciamo due aree, molto vicine alle Stelle Imperiture, e già viste in precedenza in Pyr. 749c-e.

In Pyr. 749c-e. abbiamo citati sia il Campo di Giunchi, sht-i3rw, sia il Campo delle Offerte, sht-htp.w. Questi due campi sono particolarmente importanti nella ricostruzione del cielo dato he sono a esso direttamente associati, in particolare a all’area Settentrionale dove si trovano le ihmw-sk, come nel caso dell’iskn.

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Questi campi sono inondati dall’acqua, di cui abbiamo accennato, e sottolineano come l’aldilà sia visto come un luogo dove questo elemento è particolarmente presente. Nella geografia oltremondana che si evince dai Testi delle Piramidi abbiamo citati, più volte, dei laghi e dei canali che tagliano le terre emerse. Secondo Allen l’aldilà è un “corpo d’acqua” e il nome di questa massa liquida è ptri o ptrw.

Sp. 468a. hrt ptr pt.
Presiedi al ptr del cielo.

In questo caso abbiamo il termine ptr con diverse coppie di occhi associate al cielo, mentre in alcuni casi è presente anche il determinativo del lago o del canale che può essere tradotto.

Riassumendo brevemente possiamo dire che la dw3t celeste sia ricostruita nella mentalità egizia come una regione caratterizzata dalla presenza di acqua e con: campi, aree desertiche e paludi. Queste terre sono tagliate da canali, laghi e bacini. A Nord del cielo oltremondano le Stelle Imperiture vivono in eterno e sono il luogo finale del viaggio del sovrano. Al centro di questa serie di regioni e ambienti, che abbiamo tentato di disporre secondo le coordinate geografiche, possiamo ipotizzare ci fosse il “cammino del firmamento” o la Via Lattea, il mskt shdw, che simboleggia un luogo di passaggio che caratterizza l’intera dw3t, oltre alle azioni dello spirito del faraone che ha accesso sia al mondo terreno che al mondo celeste.

http://leonardolovari.altervista.org/la-geografia-delloltretomba-egizio/

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Aton – La Religione della Luce

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Aten (anche Aton,) è il disco del sole nell’antica mitologia egizia , e in origine un aspetto di Ra . L’ Aton divinizzato è il focus dell’ enoteistica , o monoteistica religione dell’Atonismo introdotta da Amenhotep IV, che in seguito prese il nome di Akhenaton nel culto e il riconoscimento di Aton. Nel suo poema “Grande inno ad Aton “, Akhenaton loda Aton come il creatore e datore di vita. Il culto di Aton è stata cancellato da Horemheb .

Aton, il disco solare, viene prima indicato come una divinità in “La storia di Sinuhe” dalla XII dinastia , in cui il re defunto è descritto come un dio in cielo unendosi con il disco-solare, il corpo divino si fonde con il suo creatore. Per analogia, il termine “l’Aton argentatp” è stato talvolta usato per riferirsi alla luna. L’Aton solare è stato ampiamente venerato come un dio nel regno di Amenhotep III , quando fu raffigurato come un uomo dalla testa di falco molto simile a Ra . Nel regno del successore di Amenhotep III, Amenhotep IV, l’Aten divenne il dio centrale della religione di Stato egiziana, e Amenhotep IV cambiò il suo nome in Akhenaton per riflettere il suo stretto legame con la nuova divinità suprema.

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Il titolo completo del dio di Akhenaton era ” Ra-Horakhty che gioisce all’orizzonte, nel suo nome, come la Luce che è nel disco solare. ” (Questo è il titolo del dio come appare sulle numerose stele che sono state collocati per segnare i confini della nuova capitale di Akhenaton, Akhetaten , (la moderna Amarna .) Questo lungo nome è stato spesso ridotto a Ra-Horus-Aten o semplicemente Aton in molti testi, ma il dio di Akhenaton  è considerato una sintesi di antichissime divinità visualizzate in un modo nuovo. Il dio è anche considerato sia al maschile che al femminile contemporaneamente. Tutta la creazione è stato pensata per emanare dal dio e di esistere all’interno del dio. In particolare, il dio non è stato raffigurato in forma antropomorfa (umana), ma con raggi di luce che si estendono dal disco del sole.

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Inoltre, il nome del dio è stato scritto all’interno di un cartiglio , insieme con i titoli dati normalmente ad un Faraone , un’altra rottura con la tradizione antica. Ra-Horus, più comunemente indicato come Ra-Horakhty (Ra, che è l’Horus dei due orizzonti), è una sintesi di altre due divinità, entrambi le quali sono attestate molto presto. Durante il periodo di Amarna, questa sintesi è stato vista come la fonte invisibile di energia del dio del sole, di cui la manifestazione visibile era Aton, il disco solare. Così Ra-Horus-Aten è stato uno sviluppo di vecchie idee venute a poco a poco. Il vero cambiamento, come alcuni lo vedono, era l’apparente abbandono di tutti gli altri dei, in particolare Amon , e l’introduzione discutibile del monoteismo da Akhenaton. Il sincretismo è evidente nel grande inno di Aton in cui Re-Herakhty, Shu e Aton vengono uniti nel dio creatore. Altri vedono Akhenaton come un praticante di una monolatria di Aton, lui non ha negato attivamente l’esistenza di altri dèi; si è semplicemente astenuto dall’adorare il resto del pantheon divino egizio.

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Durante il periodo di Amarna, ad Aton è stato data una titolatura reale (egli era considerato il re di tutti), con i suoi nomi disegnati in un cartiglio . C’erano due forme di questo titolo, il primo aveva i nomi di altri dèi, e il secondo, quello che era più ‘singolare’ e si riferiva solo ad Aton stesso. La prima forma è Re-Horakhti che gioisce nell’orizzonte, nel suo nome Shu che è Aton. La forma più tarda ha Re, sovrano dei due orizzonti che gioisce nell’orizzonte, nel suo nome di luce che è Aton.

Akhenaton

Akhenaton

  • Le illustrazioni e i basso rilievi di Aton lo  mostrano con una superficie curva, lo studioso Hugh Nibley insiste sul fatto che una traduzione più corretta sarebbe globo, globo o sfera, piuttosto che disco . La forma sferica tridimensionale di Aton è ancora più evidente quando tali rilievi vengono visualizzati nella realtà, piuttosto che semplicemente nelle foto.
  • C’è la possibilità che la forma tridimensionale sferica di Aton raffigura l’occhio di Horus/Ra. Nelle prime religioni monoteistiche come lo Zoroastrismo il sole è chiamato Ahura Mazda (“Spirito che crea con il pensiero”) .
  • Queste due teorie sono compatibili tra loro, dal momento che l’occhio è una sfera.

Nomi derivati ​​da Aton

  • Akhenaton : “colui che è utile a Aton.”
  • Ankhesenpaaten : “La sua vita è di Aton.”
  • Beketaten : “serva di Aton.”
  • Meritaten : “Lei che è amata da Aton.”
  • Meketaten : “Ecco Aton” o “Protetto da Aton.”
  • Neferneferuaten : “Il bello di Aton.”

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L’ebraico geroglifico.

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L’importanza delle radici e la distanza tra l’ebraico del testo sacro e l’ebraico corrente sono indici di una componente geroglifica dell’ebraico antico . Tale componente dovette svilupparsi , con ogni probabilità, durante i quattro secoli dell’esilio di Israele in Egitto ( tra il XVI e il XIII sec. a.C), poi venne dimenticata dopo il ritorno nella terra promessa.In Palestina il modo di pensare connesso alla lingua geroglifica era divenuto inutile e poco pratico.

Il “segreto” delle lingue geroglifiche , consiste nel fatto che :

1) Le lettere delle lingue geroglifiche avessero ciascuna, un valore fonetico e insieme un significato compiuto,

2) Per conoscere davvero una lingua geroglifica bisogna conoscere perfettamente i significati delle lettere, e saperli interpretare, così da avere il senso intero , originario.

In egizio e in ebraico , il senso delle parole erano tre. Un modo per parlare, un modo per significare, e un modo per nascondere i significati. Oggi si indicano in livello letterale, livello figurato, e livello sacro. Il livello letterale era usato nel linguaggio corrente e doveva essere chiaro e oncreto.
Il livello figurato , le parole non indicavano le cose concrete, ma il loro valore metaforico cioè ciò che può rappresentare. Il livello sacro le aprole divenivano realtà del mondo dello spirito e degli Dei. In ebraico , al primo e secondo livello la funzione delle lettere dell’alfabeto è solo fonetica, mentre il terzo livello è quello in cui le lettere mostrano che cosa si nasconda nelle parole.

Così , “luce” in ebraico è ‘aOR: la prima lettera, l’aleph , è il segno della potenza, la lettera O è il segno dell’intelligenza, la lettera R è il segno del movimento. Il significato geroglifico della luce è dunque ” la potenza del comprendere, che ha cominciato a muoversi”. Nelle versioni consuete della Bibbia , le parole e i nomi vengono tradotti solo al primo livello, sporadiche incursioni nel secondo livello, questo perchè sono fatte da traduttori che non conoscevano la componente geroglifica dell’ebraico.

Leonardo Lovari.

Fonti: La creazione dell’Universo – Igor Sibaldi.

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L’Arca dell’Alleanza. Realtà o leggenda?

Weltchronik_Fulda_Aa88_266v_detail-free-150L’arca dell’Alleanza. È forse l’oggetto più enigmatico di tutto il Vecchio Testamento. Una reliquia futuristica. Mal si adatta a un popolo di umili pastori perduti nel deserto del Sinai tra montagne tuonanti e tende polverose. Fu uno scrigno voluto dall’imperioso Jahve per meglio controllare il popolo eletto in quel viaggio interminabile verso la terra promessa. Un’odissea assurda, che durò 40 anni di stenti pur dovendo percorrere una distanza irrisoria. Un viaggio fra tempo e spazio, tra la storia e il mito. Come se Jahve avesse incatenato gli Israeliti al deserto per addestrarli all’ubbidienza assoluta. E l’Arca fungeva da tramite divino.

Fu costruita con legno di acacia e oro puro, sulla base di misure ben precise che, tradotte in centimetri (in origine erano cubiti), dovevano corrispondere più o meno a 1,30 m di lunghezza, 80 centimetri di larghezza e altri 80 centimetri di altezza. Era rivestita internamente ed esternamente di uno strato di oro puro. Sulle pareti esterne furono fissati quattro grossi anelli d’oro massiccio in cui introdurre delle stanghe per il trasporto dell’Arca a spalla. Due cherubini d’oro ornamentali furono fissati alle estremità del coperchio dello scrigno, l’uno di fronte all’altro, ad ali spiegate.

E tutto questo nel bel mezzo del deserto? Senza l’attrezzatura necessaria? E i materiali? L’oro? L’acacia? Ovviamente no. Lo scrigno era un reliquiario trafugato dall’Egitto. Quando si parla della fuga degli Israeliti guidati da Mosè, si dice infatti che questi avevano rubato “i contenitori sacri degli Egizi”, e lo scrigno poteva benissimo essere uno di essi. Tanto più che sempre durante la permanenza nel deserto del Sinai si verifica anche l’episodio dell’adorazione del vitello d’oro, atto che manda Mosè su tutte le furie. E questa statua di divinità altro non poteva essere che un’effigie del dio egizio Apis oppure della vacca cosmica Hathor. Altra reliquia trafugata da qualche tempio egizio.

Il furto dell'Arca dell'Alleanza. Prima metà del XVI secolo. Scuola umbra. Dominio pubblico.

Il furto dell’Arca dell’Alleanza. Prima metà del XVI secolo. Scuola umbra. Dominio pubblico.

In ogni caso l’Arca sembra essere stata destinata a uno scopo ben preciso. Era una sorta di reliquiario, doveva custodire tre oggetti sacri importantissimi: le Tavole della Testimonianza, il vaso della manna e il leggendario bastone di Aronne. Inoltre il coperchio della cassa fungeva anche da altare, perché Jahve vi sarebbe apparso ogni qualvolta avesse voluto comunicare con il suo popolo eletto. L’Arca fu collocata nella cosiddetta tenda del Convegno, una capanna di pastori nomadi cui potevano accedere soltanto Mosè e suo fratello Aronne, i due sacerdoti della comunità.

Ogni qualvolta Jahve fosse sceso dal cielo fin sull’Arca, una densa nuvola avrebbe avvolto la tenda del Convegno, nascondendola agli sguardi indiscreti. Per un motivo ben preciso: a nessuno era concesso di vedere il volto di Jahve, il Nascosto, colui che disse al suo patriarca: “Non puoi vedere il mio volto. Nessuno può rimanere in vita dopo aver visto il mio volto.”(Mosè 2, 33- 20)

Tutto si fermava in religioso silenzio. Bisognava attendere. Il dileguarsi della nuvola era il segnale dell’ascensione al cielo di Jahve. A quel punto gli Israeliti potevano smantellare l’accampamento e rimettersi in moto. Già questa funzione di altare è abbastanza obsoleta di per sé, però si potrebbe spiegare con il desiderio di creare intorno all’oggetto un’aura di profonda sacralità. Mentre la terza funzione dell’Arca pone agli esegeti grandi problemi.

Perché lo scrigno non era solo reliquiario e altare ma anche un’arma temibile da combattimento. Non per nulla fu portata a spalla sul campo di battaglia. E in questa sua funzione lo scrigno non causò soltanto la morte dei nemici, ma anche quella degli Israeliti. Il palladio cominciò a mietere vittime nel popolo eletto. I primi a farne le spese furono Abihu e Nadab, figli di Aronne. I due giovani ebbero l’infelice idea di ignorare il divieto di accesso alla tenda del Convegno e di penetrarvi all’insaputa del padre. Immediatamente l’Arca sprigionò una fiamma di morte che li avvolse e li consumò.

Ancor più incomprensibile risulta la brutta fine che fece il buon israelita Usai. Questi, nel tentativo di salvare l’Arca da una caduta dal carro mentre lo scrigno veniva trasportato da un luogo all’altro, l’afferrò con le mani e morì sul colpo annientato dal fuoco divoratore. Si ha davvero l’impressione che qualcosa nella fabbricazione dello scrigno sia sfuggita di mano ai bravi devoti di Jahve e che i poveretti abbiano costruito un ordigno mortale senza nemmeno accorgersene. Come mai? Una perversa vena di sadismo da parte dell’Altissimo?

Gli Israeliti trasportano l'Arca dell'Alleanza sul campo di battaglia a Gerico. Dominio pubblico.

Gli Israeliti trasportano l’Arca dell’Alleanza sul campo di battaglia a Gerico. Dominio pubblico.

Ovviamente le vittime predestinate erano i Filistei. Questi riuscirono a sottrarre lo scrigno e a trasportarlo nella città di Asdod. Ma se pensavano di aver fatto un affare, ben presto dovettero ricredersi: un’epidemia misteriosa si abbatté sulla città. Affetti da una sorta di contaminazione che li riempiva di orribili bubboni, gli abitanti di Asdod cominciarono a perire come mosche. I Filistei si videro costretti a rispedire l’Arca al nemico. La caricarono su di un carro trainato dai buoi e la abbandonarono in aperta campagna. Il popolo eletto corse a recuperare lo scrigno. Una folla intera si precipitò ad accogliere l’Arca. Ma ancora una volta lo scrigno sprigionò la fiamma letale, uccidendo più di 50.000 persone (Samuele 6, 18-19) .

Insomma, l’Arca dell’Alleanza è il cruccio degli esegeti e l’incubo di ogni storico. Naturalmente per queste sue proprietà eccezionali viene confinata nel regno del mito. Però non dobbiamo trascurare il possibile nucleo di verità che sempre cova nel cuore della leggenda. Forse gli Israeliti vennero in possesso di un oggetto simile anche se questo, probabilmente, era un semplice reliquiario. Però i misteri non finiscono qui. Nel Pentateuco l’Arca dell’Alleanza sparisce d’improvviso. Non se ne parla più. Riappare più tardi, nei libri di Samuele. Gli autori scrivono che, ai tempi di re David, la reliquia fu portata nella località Kirjath- Jearim, a casa del pio israelita Abinadab.

Molto più tardi re Salomone, il figlio di David, costruì un tempio di pietra per custodire l’Arca, il primo tempio di pietra di Gerusalemme. Lo fece perché lo scrigno “voleva stare nel buio”, dicono gli autori del Vecchio Testamento. Una volta edificato il tempio e nel corso di una grande cerimonia, l’Arca fu deposta nel santissimo. Dopodiché gli scrittori della Bibbia non ne fanno più parola. È probabile che lo scrigno sia rimasto per un certo periodo nel buio del tempio gerosolimitano. Fino all’anno 650 a.C., quando – narra il secondo Libro dei Maccabei – il profeta Geremia, figlio del sacerdote Hilkia, prelevò l’Arca dell’Alleanza dal tempio per metterla in salvo dall’imminente saccheggio dei Babilonesi.

La nascose in una grotta del monte Nebo, situato a circa cinquanta chilometri da Gerusalemme. Il nascondiglio fu scelto con tale acribia, che si finì per smarrire l’ubicazione della grotta e l’Arca non fu mai più ritrovata. Alla conquista babilonese di Gerusalemme Geremia fu fatto prigioniero e condotto in Egitto, dove sarebbe morto lapidato dal suo stesso popolo. Di conseguenza nel 70 d. C., quando il tempio fu distrutto dai soldati romani, l’Arca non si trovava più in città. Ormai da secoli dormiva nella caverna del monte Nebo. Questo spiega perché l’Arca dell’Alleanza non fu raffigurata accanto agli altri oggetti sacri israeliti trafugati dal tempio sul bellissimo bassorilievo dell’Arco di Tito che illustra il trionfo dopo la presa di Gerusalemme.

Di seguito a quest’analisi, alcuni particolari colpiscono particolarmente l’attenzione del lettore della Bibbia. Innanzitutto l’immagine di Jahve il Nascosto che ricorda subito il dio egizio Amun, quello dal volto sconosciuto. E poi le caratteristiche materiali dell’Arca che assomiglia in tutto e per tutto a uno scrigno egizio. Le figure dorate che gli autori del Vecchio Testamento chiamano cherubini e l’iconografia moderna ha trasformato in angeli, possono essere stati originariamente delle sfingi oppure delle rappresentazioni di dee egizie che, non di rado, venivano raffigurate proprio ad ali spiegate. Per non parlare poi del fatto che gli antichi Egizi erano soliti portare degli scrigni dorati di questo tipo in processione, a spalla. Dentro erano custoditi i simulacri dei loro dèi, oppure delle reliquie care alla religione egizia.

Una bizzarra tradizione vuole l’Arca dell’Alleanza ad Aksum. Secondo il libro degli Etiopi Kebra Nagast (XIII secolo), la leggendaria regina di Saba – in questi scritti è chiamata Makeda – si recò a Gerusalemme per conoscere di persona re Salomone. Da quel viaggio nacque una relazione amorosa fra i due sovrani e, al suo ritorno in patria, la regina diede alla luce un figlio, Menelik. Raggiunta l’età adulta, Menelik fece visita al padre accompagnato dall’amico Azario. E sarebbe stato proprio Azario, narra il Kebra Nagast, a rubare nascostamente l’Arca per portarla con sé in Etiopia.

L'Arca dell'Alleanza viene portata nel tempio.

L’Arca dell’Alleanza viene portata nel tempio. Très Riches Heures du Duc de Berry, Miniatura del 1412–16 dei fratelli von Limburg e Jean Colombe. Dominio pubblico.

Dobbiamo però pensare che il Kebra Nagast è uno scritto di epoca medievale, ben lontano dagli avvenimenti descritti nella Bibbia. Inoltre in Etiopia esistono numerose arche custodite in numerosi santuari, e tutte sono dette tabot. Questo vocabolo assomiglia in modo impressionante al temine egizio teba, il cui significato è semplicemente: strumento sacro (vedi: Dizionario Egizio di Rainer Hannig, pag. 1414). Per gli Egizi il teba era uno scrigno rituale che conteneva l’immagine di un dio e si portava in processione. Ogni scrigno sacro con queste caratteristiche poteva essere definito teba. E se anche in Etiopia tutte queste arche sacre sono definite con uno stesso nome, perché l’una dovrebbe differenziarsi dall’altra? Al di là di questo, è impossibile esaminare i tabot etiopi che vengono custoditi in luoghi sacri impenetrabili, sotto la continua vigilanza di sacerdoti. Non sono accessibili. Anzi, non si possono nemmeno vedere.

Di recente gli Etiopi hanno annunciato di voler esibire pubblicamente il teba più importante, quello di Aksum, dopo secoli di segretezza. La notizia è apparsa su diversi giornali e sembrava di essere finalmente vicini alla soluzione di un enigma del passato. Invece, all’ultimo momento, tutto è svanito in una bolla di sapone. Una smentita. Non c’è da stupirsi. Il teba di Aksum non verrà mai mostrato in pubblico per un ovvio motivo: dietro la tenda si nasconde un semplice scrigno come tanti altri e non certo l’Arca dell’Alleanza.

Perché, come ho già detto, ci sono documenti molto più antichi del Kebra Nagast che forniscono un indizio chiaro sull’ultimo luogo di custodia dell’Arca: il monte Nebo, presso Gerusalemme. La narrazione erotica di Salomone e della regina di Saba, la vicenda incredibile dell’amico di Menelik che avrebbe trafugato in tutta tranquillità la reliquia più importante del tempio, non convince e resta una bella favola. L’ultima traccia verosimile è data invece da queste parole:

“Quando gli Israeliti giunsero al monte dove era stato seppellito Mosè, Geremia trovò una grotta e lì dentro nascose la tenda, l’Arca e l’altare delle offerte, e chiuse l’apertura di accesso alla grotta.” ( 2, Maccabei- 2)

Così, con il pesante macigno che i devoti spinsero sino a chiudere l’entrata di quella grotta sconosciuta del monte Nebo, l’oscurità inghiotte per sempre l’Arca dell’Alleanza. Fino ai giorni nostri.

L’Arca dell’Alleanza. Realtà o leggenda?

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Giacobbe

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La forza naturale dell’ego

Le lezioni che impariamo dalla vita di Giacobbe sono in relazione con la disciplina applicata al credente da parte dello Spirito Santo. E’ questa disciplina che rende possibile a Cristo di rivelarsi nella nostra vita.

Quando fu creato, Adamo aveva per natura una personalità definita cosciente di se stesso, ma non aveva il peccato, non lo conosceva. Possedeva una volontà libera che gli permetteva di agire di sua iniziativa. L’ego era presente, ma non il peccato.

La forza naturale è ciò che riceviamo dalla mano di Dio come Creatore, ci appartiene per il fatto di essere creature viventi e la possiamo usare, quindi, a nostra discrezione.

Forza spirituale è ciò che riceviamo da Dio con un atto di dipendenza volontaria, per grazia.

Quando nasciamo riceviamo sapienza, destrezza, intelletto, eloquenza, sentimenti, coscienza e ciò forma la nostra personalità come uomini. Dopo la caduta il peccato ha preso il controllo della vita di Adamo e così la sua forza naturale si è messa al servizio dello stesso.

Avere una personalità e un individualismo (nel senso di coscienza di se stesso e di capacità di agire di propria iniziativa) fa parte dell’uomo come tale, ma il vivere per se stessi utilizzando questa forza naturale che Dio ci ha dato è il peccato. Gesù non scelse di vivere per se stesso (Giovanni 5:30).

In contrasto con il Signore Gesù, noi possediamo un vecchio uomo, venduto al peccato (Romani 5:14). Questa, però, è solo una parte del problema, perché anche il nostro uomo naturale deve ricevere il trattamento disciplinante di Dio. Noi, infatti, con le capacità naturali di cui disponiamo cerchiamo di piacere a Dio e ci avventuriamo, sempre con le migliori intenzioni del mondo, in azioni che non sono contraddistinte dalle giuste motivazioni. Entrambi questi uomini devono venir annullati e a questo fine Dio ha previsto la croce.

Pur avendo ricevuto Gesù Cristo nel nostro cuore, noi possiamo vivere secondo una nostra concezione di ciò che si può definire spirituale. Possiamo, quindi, fare molte cose buone dal punto di vista umano, costruendo un edificio abbastanza impressionante sul fondamento che è Cristo Gesù, ma può essere visto da Dio come legno, fieno e paglia (1 Corinzi 3:12).

Il problema non è se il lavoro è buono o cattivo, ma chi lo sta facendo.

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Prendiamo ora l’esempio di Giacobbe e come Dio affronta la sua forza naturale, che nel fondo si sforzava per piacere al suo Signore.

La disciplina di Dio nei suoi confronti riguarda il modo come giungere a compiere la sua volontà. Giacobbe sapeva che Dio aveva detto: “Il maggiore servirà il minore” (Genesi 25:23) e pertanto si diede da fare perché ciò avvenisse. Commise, però, l’errore fondamentale di cercare che il fine divino si compisse utilizzando i suoi metodi, i suoi metodi umani.

Dio, non soltanto non tollera il peccato, ma anche l’uomo naturale. Gesù non dipese mai da se stesso nemmeno quando fece del bene.

Noi, per natura, siamo forti, possiamo pensare, pianificare e agire di conseguenza. Per questo Dio deve portarci al punto di essere deboli, cioè praticamente incapaci di pensare, pianificare e agire separati da Lui.

L’uomo naturale non viene perfezionato o completato, ma indebolito e reso impotente giorno dopo giorno. Poco a poco lo Spirito debilita la nostra vita fino al punto di restare, tramite un drastico tocco divino, come morti davanti alla presenza del Signore. E questo perché? Per formare Cristo in noi tramite la disciplina progressiva dello Spirito, che usa a tal fine le circostanze esteriori (Galati 4:19).

In questo modo potremo vivere una vita che è sostanzialmente derivata dalla Sua.

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Se in Isacco vediamo il Cristo impartito ai credenti, in Giacobbe vediamo il Cristo che viene formato in noi, affinché: “la vita che viviamo ora nella carne, la viviamo nella fede nel Figliol di Dio” (Galati 2:20). E ciò per poter manifestare il frutto dello Spirito (Galati 5:22).

Ebrei 12:5-11 ci parla della disciplina del Signore, che ci viene impartita con amore e per il nostro beneficio, affinché possiamo essere partecipi della sua santità, senza sforzo umano.

Il “frutto dello Spirito”, di cui parla Galati 5:22-23, non è un elenco di virtù che lo Spirito ci trasmette, ma frutti naturali, spontanei, del nuovo carattere. L’albero buono dà buoni frutti.

Ciò che Dio desidera oggi è che conosciamo Cristo come la nostra vita e che, quindi, acquisiamo il suo carattere, identificandoci in Lui.

Un credente che è passato per anni di disciplina e di sofferenza sotto la mano di Dio manifesta una profonda somiglianza a Gesù. Non soltanto la sua vita, ma la stessa sostanza del suo carattere diventano l’immagine di Gesù Cristo. Questo credente è stato trattato, manipolato e plasmato dallo Spirito Santo.

Alcuni di noi sono per natura capaci di fare qualsiasi cosa, altri sono impetuosi, pronti ad agire subito per Dio, impazienti davanti a qualsiasi attesa. Pietro era così, ma il Signore agì sulla sua vita, non per migliorarlo, ma per indebolirlo e poter formare in questo modo l’immagine di Gesù in lui. Pietro divenne una persona totalmente nuova.

Solo una persona che ha conosciuto una profonda trasformazione per opera dello Spirito Santo può dire come San Paolo: “Siate miei imitatori, così come io lo sono di Cristo” (1 Corinzi 11:1).

Questa opera di trasformazione è basilare per il cristiano, così come lo ha annunciato lo stesso Gesù: “Andate dunque e fate diventare miei discepoli gli uomini di tutte le nazioni” (Matteo 28:19).

Il credente riceve salvezza, ma questo non è sufficiente, non è la vera meta. Un discepolo, infatti, deve imparare, deve farsi ammaestrare dal suo maestro e la lezione è l’acquisizione del carattere di Gesù.

Per mezzo di molta sofferenza, difficoltà, tristezza e circostanze avverse siamo trasformati in pietre preziose.

Pagato con la sua stessa moneta

Quando incominciamo a guardare Giacobbe scopriamo che la sua storia è molto simile alla nostra.

Prima che Dio inizi a lavorare in noi, tendiamo ad assumere un’attitudine arrogante nei confronti di Giacobbe e a giudicarlo come ostinato e irresponsabile. Quando però incominciamo a riconoscere in noi la carne e la nostra debolezza, cioè la nostra peccaminosità e ostinazione, allora vediamo in noi la sua immagine.

Negli ultimi anni della sua vita, però, vediamo un Giacobbe trasformato in un vaso utile per il proponimento di Dio. Il frutto manifestato in Giacobbe fu il risultato della disciplina dello Spirito in lui, disciplina che venne esercitata per abbattere la sua forza naturale.

Giacobbe è stato un lottatore fin dalla sua nascita (Genesi 25:22-26). Se Isacco, l’erede, ricevette tutto da Dio e non fece nulla di sua iniziativa, Giacobbe elaborò dei piani per gradire Dio, poiché era astuto, abile e si considerava capace di fare qualsiasi cosa. Per natura era un uomo inutile nell’ottica del Signore, pur desiderando di conoscere e mettere in atto la volontà di Dio.

Cercò, infatti, in tutti i modi di rimediare allo svantaggio di essere nato per secondo e di ottenere quella benedizione che Dio gli aveva promesso, ma che apparteneva al primogenito.

Solo la grazia di Dio può aver scelto quest’uomo (Romani 9:11-13), non c’è altra spiegazione. Se Dio inizia un’opera la porta a compimento. Se confidiamo nell’elezione di Dio, cioè se crediamo che è il Signore che mi ha chiamato e non il pastore con il suo sermone o la campagna evangelistica, possiamo riposare in Lui.

Se abbiamo la tendenza a dire: “Sarà difficile che Dio possa operare nella mia vita”, mettiamo allora la nostra fiducia nel Dio di Giacobbe. Prendiamo atto che non fu Giacobbe a scegliere Dio per primo, ma esattamente il contrario, e se riconosciamo la grazia del nostro Signore, saremo liberati da ogni ansia relativamente al nostro rapporto col Padre celeste.

Giacobbe venne a conoscenza del piano di Dio per la sua vita e ne comprese l’importanza, ma cercò di portarlo a compimento con i suoi sforzi. Così, un giorno, fece un patto con Esaù per togliergli la primogenitura (Genesi 25:29-34).

Cercò in questo modo di ottenere quella benedizione che Dio gli aveva promesso, ma usò la sua abilità per raggiungere questo scopo. Nel capitolo 27 della Genesi, Giacobbe perpetra un’ulteriore inganno per ottenere la benedizione che il padre Isacco stava per impartire ad Esaù. Pensò di agire così per permettere alla volontà di Dio di compiersi.

Dal suo punto di vista stava facendo una cosa corretta, ma questo suo ragionamento proveniva dall’uomo naturale. Pensò che Dio non fosse in grado di mantenere la sua promessa e così lo aiutò.

Il nostro uomo naturale utilizza forza e ingenuità umane per compiere la volontà di Dio. Se il trono di Dio sembra essere sul punto di cadere, ecco la nostra mano pronta ad impedirlo. Bisogna fare qualcosa, esclamiamo.

Giacobbe, però, non ottenne altri risultati se non quelli di far sentire Esaù defraudato e di far nascere in lui il desiderio di ucciderlo. Così non gli rimase altro da fare che fuggire lontano.

Non soltanto il peccato presente nell’uomo lo rende incapace di compiere la volontà di Dio, per quanto buone siano le intenzioni del suo cuore, ma il risultato dello sforzo dell’uomo naturale sarà sempre e solo un fallimento.

Giacobbe non aveva ancora imparato ad aspettare in silenzio il Signore (Isaia 43:13), perché in fondo non lo conosceva e di conseguenza non conosceva se stesso. Per questa ragione non riuscì a godere i frutti della benedizione ottenuta con l’inganno, ma, al contrario, questa sua azione provocò la disciplina di Dio nella sua vita.

E fu solo tramite la disciplina che Dio offrì a Giacobbe quella benedizione che lui cercò di ottenere con l’inganno. Il trattamento speciale incominciò per lui a Bet-el (Genesi 28:10-22). Non potendo parlargli direttamente, perché troppo impegnato nel portare a compimento i suoi piani, Dio si rivelò in sogno. Qui gli presenta tutta la benedizione, anche se Giacobbe era ancora l’uomo naturale che conosciamo, astuto e ingegnoso.

Perché Dio gli parlò in questo modo? Forse perché sapeva che Giacobbe, così consacrato a Lui, non sarebbe sfuggito alla sua opera e prima o poi sarebbe diventato un vaso utile. La speranza di Dio nel portare a compimento i suoi piani è riposta in se stesso e non in noi, ecco il perché della sua sicurezza.

In Bet-el, malgrado la condizione spirituale di Giacobbe, Dio non gli rivolge alcuna parola di rimprovero. Non fa menzione di quello che è successo, perché sa che lui era così e non poteva cambiare. Non sarebbe servito a nulla rimproverarlo, né chiedergli di cambiare. Dio stesso lo avrebbe cambiato.

21 anni dopo, di ritorno a Bet-el, Giacobbe era un uomo differente. Ciò che non si ottiene in 10 anni, si otterrà in 20. Dio non ha fretta, per Lui mille anni sono come un giorno e un giorno come mille anni. In questa lunga attesa il Signore non dimenticò mai la sua promessa e il tempo manifestò alla fine la natura e la meta dei suoi piani.

figura 2

La promessa rivolta a Giacobbe era maggiore di quella fatta ad Abramo o a Isacco, perché non poneva condizioni. Qualunque fosse la natura di Giacobbe, Dio aveva un piano e lo avrebbe portato a compimento. Lui realizza ciò che si è proposto, anche se in noi non c’è speranza alcuna.

Giacobbe, all’inizio del suo periodo di disciplina, non sembra comprendere ancora il significato della promessa ricevuta. Questa rivelazione non lo ha cambiato affatto. Al risvegliarsi, anzi, sembra quasi essersi dimenticato di ciò che Dio gli aveva detto e sembra percepire solo un sentimento di paura per aver dormito alla Porta del Cielo. La promessa riveste un aspetto secondario, perché in Giacobbe prevale la paura di Dio. La casa di Dio, infatti, è un luogo temibile per coloro che non sono morti alla carne.

Giacobbe, poi, parlò a Dio (Genesi 28:20-21) e manifestò i suoi desideri: cibo e vestiti. Aveva perso di vista il proponimento del suo Signore e si era concentrato sui beni materiali e sulla possibilità di ritornare a casa accanto alla madre che lo amava.

E’ all’ inizio del periodo di disciplina ed è ancora forte. Così fa un contratto con Dio (Genesi 28:22), perché questo era il suo modo di fare.

Arriva ad Haran e incontra Rachele come suo primo parente (Genesi 29:9-11). Non riesce a trattenere le lacrime. Rachele gli ricorda il suo passato e tutto il cammino che ha percorso. Prima di lasciare la sua casa era duro e insensibile e sapeva come trattenere le lacrime, perché confidava in se stesso. Ma adesso non vede una soluzione alla sua situazione e incomincia, forse per la prima volta, a sentirsi debole, indifeso, e piange. La disciplina di Dio incomincia a produrre i primi risultati.

Labano, come Giacobbe, aveva una mente commerciale. Erano alquanto simili i due e ciò creava inevitabilmente delle frizioni tra loro.

Quello che non è stato in grado di compiere Esaù nella vita di Giacobbe, adesso lo compie Labano. Gli fa capire, anche se con una forma cortese, che non poteva vivere gratuitamente in casa sua e così Giacobbe diventa suo servo.

Lo servì per 10 anni per ottenere la mano di sua figlia Rachele, ma Labano lo ingannò e gli diede in sposa l’altra figlia Lea. E’ amaro essere pagati con la stessa moneta!

Lavorò altri 7 anni per avere Rachele e in questo periodo Labano gli cambiò il salario varie volte. Così Giacobbe passò per il fuoco della disciplina, ma il lavoro da compiere nella sua vita era ancora molto lungo. Lui, infatti, cerca di favorire se stesso a spese dello zio, anche se con molta difficoltà perché Labano era della stessa pasta.

Nato Giuseppe pensò di ritornare a casa (Genesi 30:25), ma dovette restare con Labano 20 lunghi anni.

Le circostanze sono ordinate da Dio per il nostro bene e hanno lo scopo di indebolire i punti particolarmente forti della nostra natura. Giacobbe alla fine divenne amabile e cordiale (1 Pietro 1:6-7).

Dio ferisce

Nel Signore siamo ricchi, completi, ma a causa della nostra forza naturale la mano di Dio deve fare in noi un’opera formativa e correttiva.

Non possiamo sfuggire alla disciplina, ma non ci mancherà nemmeno la pienezza del dono divino.

Se c’è differenza nella disciplina è dovuto al fatto che alcuni hanno più di Giacobbe rispetto ad altri.

Nell’eredità entriamo subito dopo aver accettato la rivelazione di Gesù, ma, finché viviamo, la nostra forza naturale ci perseguiterà. Dio, perciò, deve attaccarla sempre e, in certi periodi della nostra vita, in un modo del tutto particolare.

Coloro che non conoscono se stessi, non conoscono Giacobbe. Se dobbiamo comprendere quest’uomo, dovremo renderci conto di come la carne utilizza le nostre risorse per ottenere ciò che desidera.

Dopo tutti quegli anni in casa di Labano, che Dio aveva utilizzato come mezzo di disciplina, Giacobbe non era cambiato. Ingannare, macchinare, fare dei piani era sempre parte del suo carattere.

Dopo 20 anni in casa dello zio e dopo la nascita di Giuseppe, Giacobbe si ricordò della sua casa (Genesi 30:25). Fu allora che per la prima volta in Haran Dio gli parlò (Genesi 31:3,13) e lo preparò alla partenza.

Labano non voleva lasciarlo andare così facilmente, perché, grazie a Giacobbe, la benedizione di Dio era discesa anche su di lui. Partì, allora, segretamente, ma Labano lo inseguì. Dato però che era stato lo stesso Dio a dire a Giacobbe di ritornare alla sua terra, lo protesse.

Quando la prova ha ottenuto il suo scopo, Dio ci lascia andare, ci libera, e nessuno, neanche Labano, ci può fermare.

Giacobbe fa un patto con Labano e poi offre un sacrificio (Genesi 31:54). Quando lasciò la sua casa fu sua madre a ordinarglielo, ma adesso è Dio che gli prospetta il ritorno. Giacobbe ha imparato a riconoscere la voce di Dio. La disciplina non lo ha ancora cambiato molto, ma almeno è cresciuto nel suo desiderio di Dio.

Nei suoi primi anni aveva desiderato il proponimento del Signore solo perché corrispondeva ai suoi stessi desideri. Desiderava, quindi, la volontà di Dio, ma non Dio stesso. Adesso è più attratto dalla sua persona ed è i grado di riconoscerne la voce.

Protetto da Dio, Giacobbe si allontana da Labano (Genesi 31:55 ; 32:2) e gli angeli vengono ad incontrarlo. Dio gli aveva aperto gli occhi per fargli intendere che nello stesso modo lo avrebbe liberato da chiunque altro.

Che condizioni favorevoli! Giacobbe aveva il comandamento, la promessa, la protezione di Dio e anche gli angeli intorno. Tutto ciò doveva essere sufficiente perché qualsiasi individuo potesse confidare totalmente in Dio, ma Giacobbe continua ad essere Giacobbe. La grazia non cambia la carne e così invia un messaggio adulatore e falsamente umile al fratello Esaù (Genesi 32:3-4).

Aveva già dimenticato la chiamata, la grazia, la protezione di Dio. Pensò che le sue parole avrebbero potuto in qualche modo cambiare o addolcire il fratello. Esaù venne al suo incontro con 400 uomini: che intenzioni aveva? Il cuore di Giacobbe si riempì di angoscia. Coloro che pensano e fanno dei piani, invece di credere e confidare, finiscono come Giacobbe, pieni di timore e di angoscia (Genesi 32:7).

Il problema di Giacobbe era sapere cosa fare. Dio lo aveva inviato a Canaan e non poteva tornare in Mesopotamia. Non aveva il coraggio, però, di lasciare totalmente nelle mani di Dio i risultati della sua ubbidienza. Quanti di noi ubbidiscono a Dio da una parte e dall’altra fanno progetti propri. Giacobbe cercò di ubbidire a Dio e nello stesso tempo di sfuggire alla possibile vendetta di suo fratello.

Nel suo timore Giacobbe studiò il da farsi (Genesi 32:7). Cerca di impressionare suo fratello con metodi umani e dimentica la presenza di Dio e degli angeli intorno a lui.

In Genesi 32:9-12 abbiamo la prima vera preghiera di Giacobbe. Nei suoi primi anni formulava dei piani, ma non pregava. Adesso fa entrambe le cose, come se confidare completamente in Dio sarebbe stato troppo superficiale, oltre che rischioso.

Dopo aver pregato, Giacobbe elaborò i suoi piani (Genesi 32:13-18). Mai aveva pensato tanto come in questa occasione. C’era in gioco la sua stessa vita. Guardò a dio, ma poi si preparò minuziosamente per affrontare la situazione. Avrebbe ceduto tutto ad Esaù pur di salvare la propria vita.

Fu in quella notte che Dio lo affrontò. Giacobbe non aveva avuto mai tanta paura come quella notte. Era questione di vita o di morte. Aveva usato tutta la sua intelligenza, tutta la sua forza per affrontare una situazione molto difficile.

A Peniel, dove era rimasto solo, Dio lo affrontò. Lottò con lui tutta la notte e Giacobbe utilizzò tutta la sua forza. L’obiettivo della lotta era di abbattere quest’uomo, per ottenere la sua totale consacrazione, di bloccarlo per impedirgli di muoversi e così cedere al vincitore.

Dice la Bibbia, però, che Dio non riusciva a vincerlo (Genesi 32:25). Giacobbe possedeva una tremenda forza naturale.

Anche quando siamo sconfitti o vediamo la nostra situazione di peccatori, aventi torto, cerchiamo di non accettarla e insistiamo nel nostro modo di essere per vedere se la spuntiamo. Non ci vogliamo arrendere. Pensiamo che forse non abbiamo pianificato le cose abbastanza bene e che la prossima volta ci andrà meglio.

Ma arriva il giorno in cui dobbiamo ammettere la sconfitta, confessando che non sappiamo niente e che non possiamo fare niente. Giacobbe non era ancora giunto a questa esperienza e pensava, in questa occasione specifica, di conoscere bene Esaù (anche più di Dio).

Si rese necessario, allora, qualcosa di più di una semplice disciplina. La disciplina lo aveva portato fino a Peniel, cioè fino al punto in cui Dio ci tocca alla base di noi stessi., ma finché la nostra forza naturale non verrà sconfitta, anche la disciplina ricevuta da Dio può diventare un mezzo per inorgoglirci (Dio si sta occupando di me in un modo particolare).

La lotta è un metodo che Dio usa con noi. Ci indebolisce a tal punto da non avere più la forza di alzarci. Se Dio avesse utilizzato altri metodi, forse ciò avrebbe significato altri 20 anni di lavoro sulla sua persona. Così, non volendo Giacobbe arrendersi, Dio “lo toccò” e con questo tocco ottenne ciò che non avrebbe ottenuto impiegando una grande forza.

I nostri punti forti possono essere di diversa natura rispetto a Giacobbe: ambizione, orgoglio, sentimenti, amor proprio, giustizia propria…, ma per tutti questo “tocco” di Dio produce una crisi definitiva della nostra esperienza.

Che Dio ci apra gli occhi per vedere dove si trova il centro della nostra forza naturale, perché soltanto quando questo sarà toccato potremo dare frutto per il Signore.

Un tocco e Giacobbe restò zoppo. Non poteva più lottare, non aveva più forza. Così disse all’angelo: “Non ti lascerò andare”. Adesso che era così debole, Dio non poteva lasciarlo, perché dipendeva da Lui. E’ quando il nostro muscolo viene slogato che siamo più vicini a Dio. Siamo più forti, quanto più deboli siamo (2 Corinzi 12:10).

E’ la piccola fede che ottiene grandi cose.

Con una grande forza naturale siamo inutili per Dio, ma senza forza alcuna possiamo afferrarci a Lui. Quando ci arrendiamo, sconfitti, ai piedi di Dio, Lui ci considera dei vincitori (Genesi 32:28).

Coloro che sono stati toccati da Dio non sanno ciò che è successo (l’angelo non dice a Giacobbe il suo nome). E’ difficile dare una definizione dell’accaduto, anche perché Dio non vuole che aspettiamo o ci afferriamo a un’esperienza, ma desidera che i nostri occhi rimangano fissi su di Lui e non sull’esperienza.

Giacobbe sapeva soltanto che Dio in qualche maniera lo aveva affrontato e che adesso zoppicava. La sua zoppia ne era l’evidenza, oltre alla sua testimonianza verbale.

Dobbiamo guardare a Dio perché operi nel suo tempo e a modo suo. Il risultato sarà evidente in noi e non ci sarà necessità di parlarne.

Il volto di Dio

Dio non rimproverò mai Giacobbe, ma lo disciplinò. La forza naturale non può essere cambiata con la dottrina, né tanto meno con la legge, ma soltanto tramite la disciplina.

La presenza di Dio in noi ci permette di sopportare questo trattamento, altrimenti rifiutato dalla nostra logica spirituale e dal concetto umano della bontà del Padre celeste.

Giacobbe non desiderò mai progredire, o essere spirituale, o seguire l’esempio di Abramo e di Isacco. Dio stesso lo cercò, rimase con lui e operò nel suo cuore durante questi lunghi anni fino al punto a Peniel, quando Giacobbe aveva espresso la sua opera maestra, di obbligarlo a inginocchiarsi e a cedere al più forte.

Noi pensiamo che ascoltare la sana dottrina sia l’unica forma di dimorare nella grazia, ma se siamo suoi, lo Spirito ci disciplinerà continuamente, così come ha fatto con Giacobbe. Tutte le circostanze che Dio prepara hanno l’unico obiettivo di farci diventare Israele e smettere i panni di Giacobbe.

Se siamo suoi, per quanto cattivi possiamo essere, Dio rimarrà con noi. Dovremmo essere più forti di Lui per potergli impedire di portare a compimento la sua opera. Malgrado siamo soltanto degli uomini naturali, Egli compirà la sua opera e raggiungerà la sua meta. Non c’è bisogno di sapere che cosa stia succedendo o che cosa si richieda da noi, perché Dio possa compiere ciò che si è proposto.

Le persone più degne di pietà sono quelle che sono nell’errore e non lo sanno. Anche in questo caso, però, Dio non ci lascerà.

Giacobbe stava affrontando la situazione più difficile della sua vita. Infatti, tutte le cose che gli erano più care, spose, figli e possedimenti erano in pericolo. Non si era mai preoccupato dei beni e dei sentimenti degli altri, ma adesso, essendo la sua stessa vita in pericolo, elabora piani accurati e dettagliati.

Esaù mette in evidenza in modo totale il centro della forza di Giacobbe. Così, Dio permette circostanze che ci manifesteranno chi siamo noi.

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La nostra vita naturale ha un principio di governo che normalmente non riconosciamo. Dio può sforzarsi per segnalarcelo, ma non lo vediamo finché non arriviamo a un luogo come il Mahanaim di Giacobbe, dove il Signore distrugge ciò di cui eravamo maggiormente orgogliosi. La rivelazione della forza naturale ha lo scopo di uccidere proprio ciò che sta rivelando.

C’è qualcosa di cui siamo orgogliosi? Qualcosa che curiamo molto perché rappresenta la parte migliore di noi? Quando Dio tocca questo aspetto ci vergogniamo persino di vivere. Il tocco di Dio non porta soltanto debolezza, ma anche un senso di vergogna per essere quello che siamo.

Peniel significa “il volto di Dio” (Genesi 32:30). Il Signore utilizza la luce per esporci la vera situazione e questo è ciò che ci abbatte. La luce manifesta ciò che è la vera fonte e il motivo di fondo della nostra vita.

Dio, nella sua misericordia, deve portarci al punto di sentire vergogna verso ciò di cui prima ci gloriavamo o di cui eravamo orgogliosi.

Dio vuole affrontare in noi ciò che siamo per natura. Alla luce di Dio dobbiamo essere ciò che in realtà siamo. Non possiamo simulare. Possiamo desiderare di essere differenti, ma continueremo ad essere ciò che siamo per natura.

Nell’opera di trasformazione dei nostri cuori da parte dello Spirito Santo, nulla ostacola tanto quanto la simulazione per essere ciò che non siamo. Quanto più “umili” sono alcuni, tanto più vorremmo che dimostrassero un po’ di orgoglio, perché ciò darebbe a Dio l’opportunità di lavorare in loro.

E’ soltanto tramite il tocco di Dio che avviene la trasformazione e non con la simulazione.

Molti di noi non sanno ciò che è avvenuto nella Peniel personale, se non in un secondo tempo, quando notiamo dei cambiamenti nel nostro comportamento. Infatti, è proprio del tocco di Dio vedersi incapaci di fare quelle cose che prima ci piacevano tanto.

Prima eravamo soliti parlare in modo fiducioso delle cose spirituali, ma adesso vacilliamo (1 Corinzi 2:3-4). Adesso serviamo Dio e parliamo di Lui, perché è Dio stesso che lo desidera, mentre prima lo facevamo perché ne provavamo piacere, per una soddisfazione nostra. Certo, porteremo ancora avanti il lavoro nella vigna del Signore, ma adesso sarà come se fosse Lui a farlo e non più noi.

Anche dopo Peniel Giacobbe proseguì con i suoi piani. Cambiare in un istante non è cosa umana, ciò richiede l’intervento del Cielo. E’ un fatto, però, che dopo Peniel la forza di Giacobbe se ne era andata, si era molto indebolita.

Quando si incontrò con Esaù si rese conto che aveva sprecato il suo tempo (Genesi 33:4). Tutti i suoi sforzi risultarono vani, perché suo fratello era disposto alla riconciliazione.

Nella conversazione che segue (Genesi 33:9-10) sembra di vedere ancora il Giacobbe adulatore, ma non è una delle sue solite macchinazioni, anche se la sua umiltà è simulata.

Coloro che abbiamo ferito ci rappresenteranno sempre il volto di Dio. Incontrarli significa sentirsi giudicati, a meno che non regoliamo la nostra situazione.

Giacobbe fece adesso ciò che non fecero né Abramo e né Isacco, edificò una casa e comprò del terreno (Genesi 33:16-20). Lasciò la sua tenda. Eresse anche un altare a Dio.

Non era ancora perfetto e Dio permise che si verificassero gravi problemi a Sichem (Genesi 34), problemi che mai si sarebbero presentati se non fosse rimasto in quel luogo.

Adesso Dio lo manda a Bet-el (Genesi 35:1) e qui termina la sua opera.

Bet-el è la casa di Dio, il luogo dove il suo potere si manifesta tramite il Corpo di Cristo. E’ un luogo dove non osiamo portare nulla che non sia suo (Genesi 35:2-3).

In Bet-el edificò un altare e chiamò il posto El-bet-el (Genesi 35:7), cioè il Dio di Bet-el. A Sichem Dio era il Dio di Israele (l’antico Giacobbe), ma adesso è il Dio di Bet-el.

Giacobbe aveva progredito dall’individualismo ad una relazione con il Corpo. Dio desiderava una casa, un popolo come strumento, perché non può compiere il suo proponimento senza una testimonianza congiunta.

Nella Chiesa Dio è il Dio di Bet-el e non soltanto il mio Dio.

Dio gli appare un’altra volta per confermare ciò che aveva iniziato a Peniel (Genesi 35:9-10). Ciò che si mette in moto in noi quando percepiamo la luce di Dio, si completa nella casa di Dio.

Dio si presenta come l’Onnipotente, adesso che Giacobbe era arrivato a prendere atto della sua impotenza. Ma Giacobbe si rallegra di ciò ed erige un monumento di pietra su cui versa dell’olio, simbolo della gioia.

La prima volta che arrivò in questo luogo era invaso dal terrore (Genesi 28:17), ma adesso è ripieno di gioia e si sta preparando per avanzare fino a Hebron.

Il pacifico frutto di giustizia

Da Bet-el Giacobbe si recò a Hebron (Genesi 35:27). Questa località rappresenta la comunione, il rapporto mutuo, il luogo dove non si può fare nulla individualmente o isolatamente.

Fino a che la carne non ha subito il trattamento di Dio non valorizziamo la comunione fraterna, ma ci è facile e naturale proseguire da soli. Adesso, però, troviamo e sperimentiamo il significato dello stare “insieme”.

Comunione significa tra l’altro che siamo disposti a ricevere Cristo tramite gli altri. Questa può essere una lezione importante, perché alcuni sono maestri per natura e stanno sempre predicando, incuranti della ovvia necessità di ricevere da altri.

Se sono così, di certo dovrò trovare la mia Peniel, per poi potermi recare a Bet-el e infine a Hebron. Solo quando siamo giunti qui sappiamo nei nostri cuori che non possiamo vivere senza gli altri, che da soli non abbiamo alcuna base di sostegno.

Il Corpo è un fatto divino. Così come nessun membro del nostro corpo può vivere senza il resto, l’occhio infatti non può fare a meno della mano e viceversa, anche il Corpo di Cristo vive in una sfera di interdipendenza.

Giacobbe arrivò ad Hebron e poté ristabilire la comunione con la sua casa, rotta violentemente 20 anni prima.

A partire da Genesi 37, quando il figlio Giuseppe aveva 17 anni, Giacobbe esce di scena e si colloca in secondo piano. Prima era dominato da una grande attività, aveva sempre qualche progetto da portare a compimento e molta forza per perseguirlo.

Arrivato a Hebron diventa inattivo. Non c’è più nulla che lo impulsi ad essere continuamente occupato.  Nel silenzio porta frutto per il Signore.

Isacco è un tipo di Cristo, ma Giacobbe è un tipo dell’uomo naturale. L’Isacco in noi, cioè la forza spirituale, deve avanzare, ma il Giacobbe, cioè la forza naturale, deve arrestarsi. L’attività della carne deve cessare quando Dio le ha rivolto il suo trattamento.

Quando i suoi figli per la seconda volta dovettero tornare in Egitto per acquistare del grano, Simeone venne trattenuto come ostaggio e fu intimato agli altri fratelli di ritornare soltanto portando Beniamino. Come sono patetiche le parole di Giacobbe e che sentimenti nobili e teneri manifesta in questa occasione (Genesi 42:36).

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Beniamino, il suo favorito dopo Giuseppe, deve partire per l’Egitto. Giacobbe in questa circostanza ascolta i consigli dei suoi figli, sembra incerto, debole (Genesi 43:11-13), non dimostra qui i soliti stratagemmi del passato, ma la cortesia e la bontà della maturità e dell’esperienza. Ha perso tutta la sua baldanza, la fiducia in se stesso (Genesi 43:14).

I figli di ritorno gli comunicano la notizia che Giuseppe è vivo (Genesi 45:26). Se ciò fosse accaduto 20 anni prima, Giacobbe avrebbe maledetto i suoi figli per averlo ingannato tutto questo tempo. Ma adesso risalta la sua mansuetudine (Genesi 45:28).

Pur desiderando rivedere suo figlio, Giacobbe teme di recarsi in Egitto (Genesi 46:1). Ricorda l’esempio di Abramo e Isacco. Adesso non vuole che il suo amore naturale interferisca con il piano di Dio.

Interroga Dio e Lui gli risponde (Genesi 46:3-4). In questa circostanza Dio non deve intervenire per fermarlo (vedi Isacco), perché Giacobbe non vive più per gradire se stesso, ma sente prioritario cercare prima la volontà di Dio.

Grazie alla posizione del figlio Giuseppe, questo padre anziano avrebbe potuto assicurarsi una posizione di rango all’interno della corte del Faraone, ma non gli interessa più la gloria personale. Ora gli piace rimanere dietro le quinte.

30 anni prima aveva ripreso Giuseppe per i suoi sogni, ma adesso si rivolge a lui con umiltà (Genesi 37:10 ; 47:29-30).

http://www.laveritachelibera.com/Libri/giacobbe.htm

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Tomb of a Pharaoh’s wife discovered in Luxor in Southern Egypt

A Franco-Egyptian archeological mission has discovered the tomb of Karomama, the wife of one of the pharaohs of the 22nd dynasty which lasted from 945 to 715 BC, the Egyptian Ministry of State for Antiquities announced Thursday.

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The discovery was made in the area of monuments in Luxor, 700 kilometers (435 miles) south of Cairo.

The mission received assistance from Austrian experts, which led to the discovery of the tomb inside a temple dedicated to Tuya, mother of King Ramses II, located inside the Ramesseum temple on the west bank of the Nile, according to a ministry statement.

The head of the mission, Christian Leblanc, told Efe that Karomana’s name was written on a cartouche, showing that she held the rank of queen.

The discovery will lead to more information about Karomama, who held the title of “The Divine Wife”, in addition to the relation between Amun priests and the royal family, according to Leblanc who said that there are very few artifacts carrying the name of Karomama.

The head of the mission considered that the discovery may not be spectacular from the point of view of art history, but was from the perspective of the history of Egyptology.

The tomb consists of a pit, five meters (yards) deep, and a burial chamber which still retains the lower bits of its stone door.

Inside the tomb important remains of offerings were found and around 20 “Ushabti” pieces bearing the title of “divine wife”, which confirms that the tomb belonged to Karomama.

Egyptologists are trying to identify to which king she was married to.