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Presentazione “La rivelazione della Sfinge” su MARGUTTE

 

Gli egizi antichi ritenevano che la Sfinge fosse depositaria di una sapienza vasta e profonda — così come nei trattati del Corpus Hermeticum è scritto che Thot, il dio della saggezza, abbia nascosto in un qualche luogo in Egitto le sue conoscenze segrete. Questi due fatti sono considerati dagli egittologi come racconti mitici, favole.
Invece in base a quanto ho scoperto ed espongo nel mio La rivelazione della Sfinge, entrambe queste notizie paiono essere puramente veridiche. Vale a dire che la Sfinge è effettivamente custode di una conoscenza arcana e segreta, la quale è inscritta in stele di natura assai particolare, riconducibili proprio ad esseri che si possono dire divini.
Pertinenziali alla Sfinge vi sono tre templi: il Tempio della Sfinge posto di fronte alle zampe della Sfinge, il Tempio della Valle adiacente al Tempio della Sfinge, e poi in aderenza alla seconda piramide, quella detta di Khafra, c’è il terzo Tempio, detto Mortuario, che è collegato al Tempio della Valle per mezzo di una strada rialzata lunga 500 metri. Ebbene secondo gli egittologi questi tre templi costituiscono, unitamente alla Sfinge ed alla seconda piramide, niente di più che il complesso funerario del faraone Khafra (Chefren in greco) della IV dinastia.
Invece questi tre giganteschi ed enigmatici templi raffigurano una precisa e deliberata comunicazione in forma di disegno, inscritto nella piana di Giza come un geroglifico megalitico, sfuggito alle analisi di generazioni di egittologi. La pianta di questi tre templi costituisce un disegno, dal significato inequivocabile ed autoevidente.
Questo documento, tanto concreto quanto pianamente razionale, si vedrà si accordi armonicamente con le diverse diramazioni della Scienza Sacra che da sempre innervano le civiltà della Terra, al punto anzi da costituire, il messaggio della Sfinge, il fondamento archetipico e la chiave di comprensione di quel vasto alveo di conoscenze che la mentalità occidentale, idolatra della più bieca ragione calcolante, non sa più intendere.

Scoprii vent’anni fa il geroglifico megalitico rappresentato dai tre templi pertinenziali alla Sfinge di Giza.
Ed il suo significato mi fu subito evidente: un essere superiore che colpisce con una sorta di raggio il cervello di un pitecantropo. Un disegno affine alla creazione di Adamo affrescata da Michelangelo nella Cappella Sistina, con la differenza dell’essere il geroglifico della Sfinge molto più determinato ed accurato, animato da una precisione che a ben vedere non si può che dire scientifica. Il documento del quale la Sfinge è da millenni custode mostra la creazione dell’uomo, non naturalmente la creazione ex nihilo, bensì la sua formazione e modellazione a partire dai primati meno evoluti, da parte di esseri all’uomo superiori. Detto altrimenti, il geroglifico della Sfinge dichiara che l’uomo discenda dalle scimmie, così come riconosce il pensiero scientifico attuale, con la cruciale differenza, rispetto al pensiero scientifico, intorno alla causa della specificazione dell’homo sapiens, che non fu l’evoluzione fortuita di mutazioni genetiche casuali, bensì un intervento esterno, il quale, quantomeno rispetto all’ambito del pensiero occidentale, deve dirsi esoterrestre.
Mi avvidi appunto di questo messaggio in forma di disegno, dal valore particolarmente preciso e pregnante — che, se da un lato si accorda alle narrazioni religiose più diffuse, a partire del libro di Genesi, dall’altro pare con evidenza avvalorare le tesi di quegli autori che sostengono esservi nei testi sacri la descrizione di operazioni di ingegneria genetica operate da esseri superiori al fine di produrre l’uomo attuale.
Ed anche mi resi naturalmente conto della fragorosa novità che l’opera megalitica in sé costituiva rispetto al panorama delle conoscenze consolidate intorno alla civiltà egizia, anche perché nella trimillenaria conoscenza egizia vi è sì menzione dell’episodio secondo cui il dio Khnum avrebbe forgiato l’uomo sul tornio da vasaio e vi avrebbe insufflato la vita, ma appunto questa narrazione è si può dire secondaria rispetto al patrimonio acquisito dei cosiddetti miti religiosi egizi. Ed anche va considerato che i tre templi della Sfinge che rappresentano il disegno sono detti dagli archeologi essere niente altro che i templi del complesso funerario di un faraone, invece hanno la valenza autonoma loro propria, madornale ed eclatante, di istituire un messaggio, il che dissolve le credenze dell’egittologia secondo cui ogni monumento d’Egitto sarebbe stato voluto dai regnanti quale loro capricciosa tomba.
Cioè mi resi conto che la presenza di questo gigantesco disegno spezzava il senso sia delle scienze accademiche, sia del patrimonio condiviso del mondo occidentale, fino appunto a mettere in discussione il ruolo e la valenza del fondamento stesso del mondo occidentale, cioè la ragione, come più o meno agevolmente si potrà constatare da cosa espongo.


Perché, naturalmente, se è vero cosa asserisce questo disegno geroglifico allora tutto il complesso di credenze che costituiscono l’essenza del pensiero occidentale, dall’evoluzionismo al materialismo scientifico, vengono dissolte, e con loro viene dissolta anche la pretesa storia come concepita dal pensiero occidentale.
Ed ancora va ben considerato che la inconciliabilità dei tre templi della Sfinge con la narrazione storico-antropologica accademica, si afferma non solo quanto al contenuto del documento che i templi racchiudono, ma già anche per la conformazione materiale dei templi stessi. Infatti, proprio questi tre templi sono le opere in terra d’Egitto ad essere in sé le più insolite e misteriose, in quanto costituite da monoliti ciclopici, giganteschi, si può dire assurdi (e ciascuno di questi tre templi è ben più ampio della Sfinge stessa, anche se forse meno appariscente). Monoliti lunghi 9 metri, profondi 3,5 e alti 3, dal peso di oltre duecento tonnellate, gli altri di poco più piccoli ed alcuni ancor più immani, incastrati l’uno nell’altro in modo assolutamente perfetto. Come potè un popolo appena uscito dallo stadio dei cacciatori raccoglitori movimentare e mettere in opera blocchi di calcare di tale stazza? E infatti gli egittologi non hanno la minima idea di come questi templi furono costruiti, si limitano a prendere atto del fatto che questi sussistano e li incasellano nelle griglie della storiografia costruita a tavolino sulla base del darwinismo e del positivismo. Ed ancora questi templi presentano profondi segni di una erosione millenaria, proprio come la Sfinge e il suo recinto — ma ciò non deve stupire, giacché gli egittologi hanno accertato che i monoliti che costituiscono i tre templi furono ricavati dalla asportazione del materiale per il costruire la Sfinge, che come si sa è stata modellata in uno sperone roccioso sulla piana di Giza appunto asportando blocchi di calcare. E si aggiunga che secondo recenti e controversi studi, l’erosione della Sfinge e del recinto in cui è ubicata sarebbero compatibili solo con l’esposizione a abbondanti piogge, che occorsero in sito una decina di migliaia di anni fa. Anche le piramidi di Giza sono misteriose ed irriducibili ai paradigmi della storia quali ritenuti dagli egittologi, ma i tre templi del complesso della Sfinge incarnano tecniche e capacità costruttive che riflettono stadi di conoscenza davvero irriducibili ai paradigmi della scienza occidentale.
Quindi, proprio questi tre templi, indecifrabili e indatabili, costituiscono il gigantesco geroglifico di un essere superiore che colpisce con una sorta di raggio il cervello un ominide dall’aspetto sciocco, evidentemente al fine di provocarne l’evoluzione — gli egittologi non hanno mai notato il disegno racchiuso nelle piante dei templi, pur avendole riprodotte in decine di testi a partire dalla fine dell’800, per il semplice motivo che chi cerca tombe solo complessi funerari può trovare.


Che fare, dunque, del documento che la Sfinge da millenni custodisce? Ovvero, ribaltando la domanda, perché ne ho taciuto per vent’anni?
Quanto più una scoperta è dirompente, tanto maggiore è la responsabilità che essa impone a chi ne sia il testimone.
Se da un lato è autoevidente il significato del messaggio ivi disegnato, dall’altro lato il livello di conoscenza e di coscienza della umanità attuale non è certo più quello di chi il messaggio vergò; anche solo semplicemente per il fatto che il complesso di conoscenze di chi interpreta orienta l’interpretazione, nell’ambito del circolo ermeneutico; nel senso che questo documento nel Medioevo sarebbe stato inteso come la raffigurazione del dio veterotestamentario che crea l’Adamo, mentre oggi che Dio è morto lo si può ricondurre tout court all’ipotesi che gli alieni abbiano modellato l’uomo, mentre in altri ambiti sapienziali si può dire raffiguri un essere non umano, ovvero un Buddha (e mi riferisco alla immagine tibetana secondo cui il genere umano fu creato dal Buddha Avalokhiteshvara, il Buddha della compassione, intervenendo su una scimmia), ovvero altrimenti.
Quindi c’è un primo problema che riguarda la “adeguatezza” dell’interprete, nel senso appunto del grado di duttilità ed abitudine mentale da parte di chi legge il messaggio, perché è chiaro che se si resta ancorati al pensiero materialistico contemporaneo si deve concludere che questo messaggio raffiguri comunque un mito, restando esclusa a priori l’ipotesi che possa dare conto di un evento effettivamente accaduto.
Nonché su questa problematica ermeneutica si innesta il fatto che le verità più importanti, come dice Platone nella Lettera VII, non debbano essere esposte alla derisione, e parimenti nemmeno alla supponenza di chi da un elemento tragga conclusioni in base a cosa pateticamente crede di sapere.
Ma questi aspetti problematici insiti nella responsabilità connaturata alla scoperta non debbono far venir meno la contestuale responsabilità che impone di doversi rendere noto il messaggio custodito dalla Sfinge, e ciò proprio per il fatto che questo messaggio non è da considerarsi un segreto, perché invece esso sta sotto gli occhi di chiunque lo voglia vedere ed è appunto come tale destinato ad essere comunicato. Nella Kore kosmou del Corpus Hermeticum è narrato che Ermete, cioè Thot, abbia deposto le sue stele recanti la conoscenza suprema da qualche parte in Egitto (in un luogo che come suggerisco nel testo è sicuramente identificabile con la piana di Giza), in attesa di qualcuno che imbattutosi in esse fosse in grado di leggerle — e peraltro questo meccanismo, di nascondere un documento affinché sia riscoperto nelle generazioni future, è assai ricorrente nell’ambito del Buddhismo tibetano, con il nome di terma i tesori, e il nome di terton per lo scopritore di testi nascosti e di gonter per lo scopritore di tesori della mente).
Tutti questi aspetti convergono insomma nel doversi essere analizzata la portata del documento della Sfinge nel contesto di una pluralità di scenari, coerenti con la logica va da sé, ma svincolati da quel complesso di credenze che è il pensiero scientifico occidentale.

Antonio Viglino

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LA RIVELAZIONE DELLA SFINGE – Antonio Viglino

 

La Rivelazione Della Sfinge è un saggio di Antonio Viglino (Harmakis Edizioni, 2024) che abbiamo scelto di proporre ai lettori interessati all’esoterismo e all’archeologia non convenzionale: si tratta di uno studio sui tre templi che costituiscono l’area delle piramidi e della Sfinge a Giza, che gli egittologi identificano come il complesso funerario in onore del faraone Khafra della IV dinastia ma che il saggio in esame ritiene, invece, il progetto della Creazione dell’uomo da parte di esseri superiori.

Sotto forma di geroglifico, il disegno dimostrerebbe, secoli prima della relativa evidenza scientifica, come l’uomo discenda dalle scimmie ma non tramite fortuite combinazioni genetiche, bensì tramite un vero e proprio intervento esterno di ingegneria genetica a livello cerebrale . Il documento concorderebbe, quindi, non solo con i miti sulla Creazione presenti in quasi tutte le religioni e dmitologie del pianeta Terra, ma confermerebbe i fondamenti di alcune

pratiche legate al pensiero esoterico e alle pratiche meditative più antiche, come lo yoga.

Un libro che senza dubbio interesserà gli appassionati di storia alternativa ma che potrà incuriosire anche gli altri lettori.

LA RIVELAZIONE DELLA SFINGE – Antonio Viglino

 

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Il fascino dell’antico Egitto nel mondo del gioco

Il tema dell’antico Egitto è uno dei più diffusi

nei giochi di casinò e nelle slot machine:

attualmente, nei migliori casinò online trovi centinaia di giochi e slot ambientati in questa terra ricca di suggestioni e tesori sepolti. Si tratta di giochi avvincenti che presentano personaggi e simboli unici, caratterizzati da un particolare alone di mistero.

Nell’articolo di oggi approfondiremo proprio il tema dell’Egitto che da sempre affascina il mondo del gioco.

L’Egitto nella cultura popolare

Ricco di misteri e culla del fertile Nilo, fin dall’antichità l’Egitto è uno dei luoghi più seducenti della storia. Di fronte a un culto dei morti tanto misterioso quanto affascinante, alle Piramidi e alle enormi ricchezze nascoste tra le dune del deserto, è impossibile sottrarsi al richiamo di questa cultura.

Sono trascorsi circa 2.000 anni da quando l’antica Roma iniziò a conoscere da vicino la cultura egizia, durante un periodo di conflitti e guerre civili. Un esempio significativo di questo fenomeno fu la costruzione della Piramide Cestia, edificata tra il 18 e il 12 A.C.

Molto spesso, negli anni, il cinema e la cultura popolare hanno impiegato continui richiami alla mitologia egizia, contribuendo a conferirle una patina di mistero con un tocco di azione – soprattutto grazie ai numerosi protagonisti di avventure cinematografiche alla ricerca delle immense ricchezze dei Faraoni.

Per comprendere questa fascinazione di lungo corso possiamo guardare al culto dei morti praticato nell’antico Egitto: al tempo, infatti, la convinzione che i beni materiali potessero essere utilizzati nel Regno dei Defunti spingeva gli Egizi a seppellire i Faraoni assieme alle loro inestimabili ricchezze.

Il successo dell’Antico Egitto nelle slot machine

E il mercato del gioco ha prontamente seguito la scia della popolarità dell’antico Egitto nella cultura di massa, sviluppando una ricca varietà di titoli ambientati in questa terra. Alcuni dei più grandi successi del settore, come le slot Mega Moolah, Or d’Egipte, Tomb of Misir e molti altri giochi, sono accomunati dalla presenza di simboli quali piramidi, mummie, Faraoni e divinità egiziane.

Non è un caso, infatti, che i principali operatori del gioco presentino nella propria offerta numerosi titoli ambientati nel contesto dell’Antico Egitto, come giochi di casinò o appunto slot machine in grado di coinvolgere il giocatore sin da subito in un’avventura ricca di mistero e di vincite inattese!

FONTE: La Gazzetta dell’Emilia

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Antico Egitto: manuale di mummificazione

Mummia

Quando si parla di mummificazione, pensiamo subito ai faraoni e all’Antico Egitto: e a ragione, perché gli egizi sono stati pionieri e maestri nei procedimenti di conservazione dei defunti, considerati una vera e propria arte i cui segreti venivano tramandati principalmente per via orale. Fino a poco tempo fa eravamo a conoscenza di soli due testi sul tema: ora se ne aggiunge un terzo, un vero e proprio manuale sulla mummificazione, contenuto all’interno di un papiro medico. È il cosiddetto Papiro Louvre-Carlsberg, così chiamato per via della proprietà condivisa tra il museo francese del Louvre e la collezione di papiri della Carlsberg Foundation (Danimarca): lungo sei metri, risale al 1450 a.C. circa, ed è di ben mille anni più antico degli altri due manoscritti sulla mummificazione.

Il testo non è rivolto ai neofiti del mestiere, ma funge piuttosto da promemoria per gli addetti ai lavori: non tratta infatti le tecniche di base della mummificazione, ma descrive i dettagli di alcuni procedimenti, come la preparazione di unguenti e l’uso di diversi tipi di bende. In particolare spiega in che modo mummificare il volto del defunto, utilizzando sostanze ricavate da piante aromatiche e cotte in un liquido che il mummificatore spalmava su teli di lino rosso, che andavano poi appoggiati sul volto della futura mummia. «La descrizione di questo procedimento è uno dei dettagli più interessanti del manuale», afferma Sofie Schiødt, l’egittologa che ha revisionato il papiro.

Questa procedura, fino ad oggi sconosciuta, veniva ripetuta ogni quattro giorni, per 17 volte. La mummificazione durava in totale circa 70 giorni: i primi 35 servivano a svuotare e seccare il corpo, che nei restanti 35 giorni veniva avvolto, profumato e riposto nella bara. Negli intervalli tra un procedimento e l’altro, i mummificatori coprivano il cadavere con teli e bacchetti di incenso, che accendevano per tenere lontani insetti e scarafaggi. Un procedimento lungo e complicato, che si concludeva con la celebrazione di riti religiosi volti ad accompagnare il defunto nel suo viaggio nell’aldilà.

La Mummificazione – Pietro Testa

 

https://www.focus.it/cultura/storia/manuale-mummificazione-antico-egitto

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L’Antico Egitto – Tra misteri e scoperte

Sabato 12 Ottobre 2019 a Cavriglia (Ar)

Una giornata interamente dedicata all’Egitto:
“L’Antico Egitto: tra misteri e scoperte”
ospite lo scrittore inglese best-seller Adrian Gilbert.

Mattino: ore 9.00 Auditorium del Museo Mine a Castelnuovo dei Sabbioni incontro riservato ai ragazzi delle scuole
Programma:
– Saluti istituazionali dell’Amministrazione Comunale
– Introduzione all’Antico Egitto a cura di Leonardo Lovari
– “Piramidi, geometria e connessioni stellari” di Adrian Gilbert

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Pomeriggio: ore 18.00 Teatro Comunale di Cavriglia (Piazza Berlinguer) incontro pubblico gratuito e aperto a tutti.
Il programma:
– Saluti istituazionali dell’Amministrazione Comunale
– Presentazione Harmakis Edizioni e la Stele del Sogno a cura di Leonardo Lovari
– “Osiride, Stelle, Piramidi e resurrezione” di Adrian Gilbert

Ingresso Gratutito

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Le avventure di Belzoni, l’Indiana Jones italiano che riscoprì l’antico Egitto

Pochi sanno che il personaggio di Indiana Jones, nato dalla fantasia di George Lucas, è ispirato a un uomo realmente esistito. Per di più un italiano. Il suo nome era Giovanni Battista Belzoni, padovano, vissuto a cavallo tra Sette e Ottocento. Se la vita di Indiana Jones vi pare avventurosa è perché non avete letto le memorie di Belzoni.

Per la gioia degli appassionati è appena uscita una nuova edizione di Viaggi in Egitto ed in Nubia, edito da Harmakis (pagg. 190, euro 16). Il volume, scritto e pubblicato da Belzoni nel 1820, dopo il suo definitivo ritorno dall’Egitto, e tradotto in varie lingue, ottenne uno straordinario successo e fece di lui un uomo famoso in tutto il mondo. Perfino lo zar Alessandro I lo ricevette a San Pietroburgo facendogli dono di un prezioso anello con topazio circondato da dodici diamanti. Belzoni era un individuo fuori del comune, fin dall’aspetto. Alto più di due metri, possedeva una forza prodigiosa: era capace di sollevare dieci uomini fatti salire su un sostegno caricato sulle spalle. Bello, sicuro di sé, dotato di autocontrollo, possedeva fascino e carisma a volontà. Non appena entrava in una stanza la gente lo guardava ammirata, come soggiogata dalla sua presenza. Lo stesso viceré d’Egitto, Muhammad Ali, uomo truce e spietato, rimase impressionato dai suoi modi rispettosi ma disinvolti.

Belzoni era nato nel 1778. Da ragazzo aveva assistito il padre nella sua bottega di barbiere. A sedici anni si era trasferito a Roma per compiere studi di ingegneria idraulica: qui si era appassionato all’archeologia. Ma alla calata delle truppe napoleoniche era fuggito alla chetichella, anche per evitare di venire arruolato nell’Armée. Raggiunta l’Inghilterra nel 1803 (Paese che prese ad amare quasi al pari di quello natio), si sposò con una giovane di Bristol, Sarah Banne. Deposte le speranze di trovare impiego nel campo dell’ingegneria idraulica (in Inghilterra gli studi in quel settore erano a uno stadio molto più avanzato), pensò di sfruttare le sue doti fisiche iniziando a esibirsi nei teatri popolari come «Sansone della Patagonia» prima, e come mago e prestigiatore poi, tra mani mozzate e donne segate in due. Divenne famoso anche per gli spettacoli acquatici, con tanto di battaglie navali simulate. Un periodo per il quale in seguito provò vergogna e che cercò in ogni modo di dimenticare (quando qualcuno glielo ricordava andava su tutte le furie).

Ma la sua vita andò incontro a una svolta durante il suo primo viaggio in Egitto (all’epoca una provincia dell’impero ottomano), dopo un breve soggiorno a Malta. Una volta giunto nella terra dei faraoni, ad Alessandria, con la moglie e il fedele servitore irlandese al seguito, dopo un periodo di quarantena dovuta alla peste che flagellava la città, entrò in contatto con gli ambienti legati ai servizi segreti britannici, che pensarono di servirsi di lui sia come informatore sia per il recupero di preziosi reperti archeologici situati in zone ad alto rischio. In quegli anni, anche grazie alla spettacolare spedizione napoleonica nella terra delle piramidi, con artisti e studiosi al seguito, divampava una febbre per tutto ciò che era egizio: gli obelischi sottratti al deserto andavano ad adornare le piazze parigine e londinesi, e mummie, sarcofaghi e statue cominciavano a riempire le sale dei principali musei europei.

In realtà Belzoni era venuto in Egitto per realizzare un’innovativa macchina idraulica per l’irrigazione dei campi da vendere al viceré, nella speranza di produrne in serie e arricchirsi. Ma alcuni funzionari di corte erano riusciti a far naufragare i suoi progetti sabotando il prototipo, che si era inceppato proprio sotto gli occhi implacabili di Muhammad Ali Pascià.

Rimasto senza un soldo Belzoni aveva accettato di lavorare per il console generale britannico, sir Henry Salt. A quel tempo era in corso una gara tra francesi e inglesi per il possesso dei più preziosi reperti sparsi nei vari siti archeologici dell’immenso Paese. Ben presto tra Belzoni, al servizio dei britannici, e Bernardino Drovetti, console generale di Francia con solide relazioni a corte, la rivalità raggiunse il culmine, e i due non si risparmiarono i colpi bassi, venendo perfino alle mani (inutile dire chi ebbe la peggio). Belzoni era tra i pochi che osavano avventurarsi lungo il Nilo fino all’Alto Egitto e perfino in Nubia, terra all’epoca selvaggia e pericolosissima, abitata da tribù bellicose, sempre in guerra tra loro; l’unico ad avere il fegato per calarsi in grotte buie e mefitiche, e ad avventurarsi lungo cunicoli bui e cosparsi di ossa e teschi umani. Durante queste spedizioni, a rischio della vita (in parecchie circostanze, armato delle sue inseparabili pistole, aveva dovuto dar prova di forza e sangue freddo, difendendosi dalla rapacità delle popolazioni locali e dei predoni del deserto), riuscì a riportare alla luce nell’arco di cinque anni (dal 1815 al 1819) reperti di immenso valore, poi trasportati in Inghilterra e venduti al migliore offerente, per lo più al British museum, dove ancora li possiamo ammirare. Gli scontri con Drovetti (parte della cui collezione fu ceduta nel 1824 al re di Sardegna, per poi trovare una degna collocazione nel Museo egizio di Torino) divennero sempre più frequenti e violenti, fino a sfociare in un processo a seguito del quale Belzoni fu costretto a lasciare l’Egitto per sempre (potendo contare il rivale sull’appoggio del viceré). L’inimicizia tra i due era divenuta leggendaria. Drovetti, esploratore e collezionista d’arte, uomo colto e dotato di grande fascino, aveva origini piemontesi, ma era legato a doppio filo a Napoleone; perciò dopo la definitiva caduta del corso venne richiamato in patria ma, rifiutatosi di obbedire, finì per mettersi al servizio del viceré d’Egitto: tornato in Piemonte molti anni dopo, morirà all’età di 76 anni a Torino (secondo alcuni in un manicomio).

Quanto a Belzoni, divenuto esperto di egittologia, nel corso delle sue spedizioni lungo il Nilo si rese protagonista di ritrovamenti e scoperte straordinarie. Dopo essere riuscito nell’impresa di trasportare da Luxor (l’antica Tebe) a Londra il colossale busto di Ramses II (che all’epoca si riteneva raffigurasse il mitologico re etiope Memnone, discendente del re troiano Priamo), per primo, nel 1817, riuscì a penetrare nel tempio rupestre di Abu Simbel, fatto erigere nel XIII secolo a. C. dal faraone Ramses II e all’epoca di Belzoni ritenuto inaccessibile. Il monumentale tempio, situato nell’attuale governatorato di Assuan, sulla riva del lago Nasser, era stato scoperto quattro anni prima dall’esploratore e orientalista svizzero Johann Ludwig Burckhardt, che divenuto amico dell’italiano lo aveva incoraggiato e appoggiato in molte delle sue imprese.

Dopo avere portato alla luce preziosissime statue a Karnak e nella Valle dei re (tra cui un’imponente statua di Amenofi III e il sarcofago di Ramses III, venduto a re Luigi XVIII e oggi esposto al Louvre), Belzoni riuscì dove molti avevano fallito, battendo sul tempo Drovetti che voleva impiegare dell’esplosivo per aprirsi un varco: fu lui infatti a individuare l’accesso alla piramide di Chefren, a Giza, all’interno della quale, come era solito fare, appose la sua vistosa firma (anche se ben presto fu chiaro che la piramide era stata violata seicento anni prima dagli arabi). Ma la sua scoperta di maggiore rilievo fu senz’altro il ritrovamento, nella Valle dei re, della meravigliosa tomba del faraone Seti I (padre di Ramses II), interamente decorata con pitture e bassorilievi in un tripudio di colori, e ancora oggi contrassegnata come tomba Belzoni.

Sembra incredibile ma tutto questo non bastò a fare di lui un uomo ricco. Avendo dovuto spesso sostenere personalmente le spese delle sue spedizioni (e forse non essendo tagliato per gli affari), dalla vendita dei numerosi reperti da lui condotti in Europa e dal successo del suo libro Belzoni ricavò appena di che estinguere i debiti accumulati negli anni. Deluso e scontento, anche perché snobbato dal mondo accademico che lo giudicava niente più che un dilettante e un avventuriero, nel 1823, dopo avere soggiornato a Padova (che lo accolse come un eroe), decise di imbarcarsi in una impresa folle ma che, a suo giudizio, lo avrebbe consegnato alla leggenda: sarebbe partito alla volta della leggendaria Timbuctù, la città dai tetti d’oro, nel Mali, e alla ricerca delle sorgenti del fiume Niger, nonostante la contrarietà della moglie (dal Benin e dal Mali, si diceva, nessun esploratore era mai tornato). E difatti il fato era in agguato: poco dopo essere sbarcato in Africa, nel golfo di Benin, e avere raggiunto il porto fluviale di Gwato, Belzoni fu assalito da una febbre violenta e, dopo avere tentato di curarsi con oppio e olio di ricino, morì di dissenteria. Non prima di avere sorbito una tazza di tè e avere scritto la sua ultima lettera indirizzata alla moglie (che per la prima volta aveva rifiutato di portare con sé nonostante le insistenze della donna). Era il 3 dicembre 1823. Fu sepolto ai piedi di un grosso albero, in una fossa profonda tre metri, sotto una lapide di pietra. Oggi della lapide non vi è traccia. E nemmeno l’albero si sa più quale sia.

http://www.ilgiornale.it/news/avventure-belzoni-lindiana-jones-italiano-che-riscopr-1741048.html

 

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La Guerra nell’Antico Egitto

Gli antichi Egiziani, grazie alla posizione geografica della loro terra, non erano un popolo guerriero, come lo furono altri dell’area medio – orientale. Nei primi periodi della loro civiltà ebbero milizie interne con compiti difensivi e offensivi riguardanti piccole rivalità tra distretti del paese: le uniche azioni guerresche erano dirette verso la Libia e la Nubia, principalmente per razziare e deportare schiavi per la mano d’opera.

Fu dopo la cacciata degli Hyksos che l’Egitto compose un nuovo quadro delle forze militari sotto il profilo logistico e di armamenti. L’esperienza della guerra contro il governo asiatico fu la molla che fece scattare l’epopea imperiale ed espansionistica rivolta principalmente verso la zona dell’Asia Minore, giungendo fino all’Eufrate e all’area meridionale dell’attuale Turchia.

In questo libro si sono voluti analizzare e descrivere i vari aspetti dell’arte militare degli antichi Egiziani, toccando anche il modo di pensare dei sovrani e dei soldati nei riguardi delle azioni guerresche e strategiche, a parte la connessione tra economia e guerra. Ci si troverà di fronte a degli usi che, se da un lato ci possono lasciare inquieti,
dall’altro sono manifestazioni dei modi di combattere di quei tempi.

A quell’epoca il coraggio del combattente era dimostrato nello scontro ravvicinato in cui entravano in ballo la determinazione e armi micidiali che in genere producevano ferite e morti atroci. La morte a distanza era poi inviata con armi da lancio, come frecce, lance, giavellotti e fionde, mentre la morte per calpestamento era provocata
dall’impatto tremendo con i carri da guerra trainati dalle pariglie di cavalli lanciati al galoppo sfrenato.

La guerra fu, è e sarà sempre un’azione tragica che spezza generazioni e getta nel disordine e nell’indigenza le nazioni: la Storia ha il compito di insegnare … ma l’uomo è un allievo dalla memoria labile!

Pietro Testa

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IL POPOLO DELLE STELLE

Nabta Playa

In passato la Valle del Nilo non era il luogo mite e fertile di ora, ma una palude inospitale, infestata dai rettili e afflitta da malattie. Attorno al 12000 a.C. quando l’ultima era glaciale volgeva la termine, inondazioni catastrofiche si riversarono nel Nilo dai laghi dell’Africa Centrale ingrossati dagli implacabili monsoni, che spazzarono via tutto al loro passaggio rendendo invivibile la Valle del Nilo. Ma gradualmente il clima si riscaldò e stabilizzò. Lentamente le paludi si ritirarono e le umide mangrovie lasciarono il posto a una meravigliosa vallata verde ai confini del deserto. A giugno alluvioni più moderate irrigarono la terra adiacente con abbondanti fertilizzanti trasformando la valle in una
colossale fattoria. A settembre le acque si ritirarono, e grazie al calore e al sole splendente, benedizioni dell’Egitto, la valle divenne un trionfo di piante, frutti e cereali. Dal 5000 a.C. questo processo annuo trasformò l’Egitto in uno Shangri-la, “luogo perfetto” perché la prima civilizzazione del mondo vi si stabilisse e prosperasse.

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La parte occidentale del Nilo era il vasto deserto del Sahara dove, da tempo immemorabile, i popoli preistorici vivevano in comunità rurali organizzate. Alti, magri e dalla pelle scura, furono loro i primi ad addomesticare il bestiame, coltivare i cereali, creare metodi per calcolare il tempo, studiare il cielo, creare un calendario, usare le stelle e il sole per rilevare il tempo e navigare, e i primi a seppellire i propri morti in tombe cerimoniali. Il bestiame era il bene più prezioso, una sorta di “dispensa ambulante” usata come mezzo di trasporto. Per questo gli antropologi hanno denominato questa misteriosa popolazione del deserto “popolo del bestiame”.

Ogni anno a giugno, le piogge monsoniche che irrigavano il Sahara riempiendo le depressioni e formando laghi provvisori in tutto il territorio arido. Uno dei laghi provvisori – oggi noto come Nabta Playa – si trovava a 100 Km a ovest del Nilo e dell’attuale Abu Simbel. Il popolo del bestiame arrivò lì nel tardo giugno, si accampò e vi rimase fino all’autunno quando il lago si prosciugò. Per molti millenni arrivò a Nabta ogni estate, usando il sole e le stelle per orientarsi. Attorno al 5000 a.C., si stabilì in modo permanente a Nabta scavando dei pozzi e procurandosi l’acqua che doveva servire da sostentamento nella stagione asciutta. Con tanto tempo a disposizione e senza più il bisogno di spostarsi da un luogo all’altro in cerca di acqua, il popolo del bestiame trasformò lentamente la propria conoscenza nella navigazione con le stelle in “religione del cielo” con complessi rituali e cerimoniali. Sapeva bene che i monsoni arrivavano durante il solstizio d’estate, e nello stesso tempo, aveva notato il primo sorgere della costellazione di Orione e della stella Sirio.

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Quel popolo osservava anche le stelle circumpolari aNord, soprattutto l’Orsa Maggiore, imparando ad usarle per prevederela durata della notte e delle stagioni. Dal 6500 a.C. si sviluppò un immenso complesso cerimoniale a Nabta Playa, una sorta di “Stonehenge” del deserto, per osservare il sorgere del sole e delle stelle. Attorno al 500 a.C., però, per un drammatico cambiamento del clima, i monsoni non raggiunsero più il Sahara, i laghi provvisori scomparvero e i pozzi finirono per prosciugarsi. Dal 3400 a.C., Nabta Playa fu abbandonata per sempre e il popolo delle stelle, assieme al bestiame e al bagaglio di conoscenze, migrò ad est verso la Valle del Nilo. Da allora, il ricordo di quel popolo scomparve negli abissi della preistoria.

Robert Bauval – Tratto da: Le Idee del Nuovo Orizzonte – Harmakis Edizioni

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[:it]PAPIRI E STELE CON RITUALI DI INIZIAZIONE OSIRIDEA[:en]PAPYRUS AND STELAE WITH RITUAL INITIATION OSIRIDEA[:]

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Testimonianze di personaggi che abbiano realmente eseguito i rituali di iniziazione ad Osiride ci sono pervenuti solo attraverso alcuni papiri e steli che vanno dal XV sec. a.C. al I sec. d.C.: l’analisi che fa Guilmot nel suo “Iniziati e riti iniziatici nell’antico Egitto” va posta in parallelo con il Capitolo 125 del Libro dell’uscire al giorno che abbiamo sopra concisamente riassunto; si vedrà così come i vari passaggi del rituale descritti in questi testi siano non sempre perfettamente coincidenti con le parole del Libro, nel quale probabilmente è conservata una forma più arcaica di iniziazione.

Precisiamo che Guilmot vede tutta l’operazione iniziatica come una sorta di travaglio psicologico mirante ad un “perfezionamento spirituale”, anche se non è chiaro cosa egli intenda per “spirituale”, basato sullo “scatenarsi dell’emotività”, ed il suo studio si basa, come egli stesso dice, “sull’unire la tecnica della filologia a quella della psicologia dell’irrazionale”: prese le giuste misure dalle sue personali interpretazioni, con le quali ovviamente non concordiamo, il lavoro svolto da Guilmot risulta davvero importante per la conoscenza dell’effettiva realizzazione di tecniche iniziatiche nell’antico Egitto.

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I testi studiati da Guilmot sono tre: il più esteso è proprio il più recente (papiro T 32 di Leida, scritto per un sacerdote di nome Horsiesis, Profeta di Amon Râ, I sec. d.C.), esso quindi risente della corruzione causata dal diffondersi dei Misteri classici in Egitto, come d’altronde si osserva anche nella descrizione del rito fatta da Apuleio nelle sue Metamorfosi. Però il confronto con testi più antichi (iscrizioni nella tomba di Amenhotep, sacerdote di Amon sotto Thutmosi III nel XV sec. a.C. e sulla statua di Hor, profeta di Amon durante la XXII Dinastia nel IX-VIII sec. a.C.) consente di rilevare l’esistenza di un iter iniziatico parallelo tra i vari testi, anche se non perfettamente coincidente sia tra di loro sia con quello riportato nel Libro dell’uscire al giorno (Tabella comparativa in: a sinistra il Capitolo CXXV, a destra i punti salienti del rituale). Questo iter può essere distinto in cinque fasi:

  1. 1. L’accoglienza dell’iniziato nel “luogo sacro” identificato con un tempio di Osiride e in alcuni casi l’offerta di una corona di fiori o di fronde, quale si è ritrovata in alcune sepolture, come quella di Tut-ankh-Amon. Essa si identifica probabilmente con la corona del cap. XIX del Libro dell’uscire al giorno: “Tuo padre Atum ha posto questa corona di giustificazione sulla tua fronte affinché tu viva in eterno”; la corona, simbolo della regalità, è anche simbolo del potere e la sua forma circolare è segno del mondo trascendente. Anche Apuleio riceve una corona, ma alla fine del percorso iniziatico, una corona fatta di fronde di palma, le cui punte sono simbolo dei raggi solari: l’iniziato è divenuto un eguale di Râ.
  2. 2. La discesa sotto terra o il passaggio attraverso l’oscurità della sala ipostila del tempio da solo o accompagnato da sacerdoti o da Anubis stesso (un sacerdote vestito con la maschera del Dio), sostituito in alcuni dei testi riportati da Guilmot dalla trasmissione di segreti o dalla lettura di testi, che egli suppone contengano formule iniziatiche. Il significato del “passare sotto terra” o comunque attraverso un luogo oscuro è simbolo della morte che l’iniziato deve subire per rinascere. Un dipinto di epoca tarda raffigura il defunto vestito di bianco, segno di purità rituale, con in mano una corona e al suo lato sinistro Anubis che lo accoglie tra le braccia, mentre a sinistra vi è un sarcofago, segno della parte corporea che il defunto lascia dietro di sé; analogamente nel Libro di ciò che è nell’Amduat l’Ora XII si conclude, come si è visto, con la mummia di Osiride abbandonata sulla parete dell’Amduat mentre il Sole-Iniziato esce in forma di Khepri tra le braccia di Atum.
  3. 3. L’ingresso nella Stanza sotterranea o in un luogo analogo e la “giustificazione” dell’iniziato che diviene maakheru, “giusto quanto a voce”.
  4. 4. La rigenerazione, che si attua attraverso un bagno purificatore in un bacino, quale si trova accanto a tutti i templi o, nel caso di Abydos, probabilmente nell’anello di acqua che circonda la piattaforma centrale, di cui diremo avanti.
  5. 5. La rivelazione del Dio e l’illuminazione trascendentale che ne consegue e che si raggiunge attraverso la visione del corpo del Dio o del reliquiario della sua testa o del suo corpo nel sarcofago, atto che costituisce il momento culminante e finale del rituale.

Come si può vedere, la corrispondenza con il testo del Libro dell’uscire al giorno non è perfetta: anche lì abbiamo azioni rituali simili e con analogo significato, ma in ordine diverso e con alcuni passaggi che sono forse più coerenti con quanto ci si attende da un rituale iniziatico, ad esempio la purificazione dovrebbe precedere e non seguire la giustificazione, la quale dovrebbe essere il punto di arrivo del rito, mentre nei testi studiati da Guilmot essa è sostituita da una specie di illuminazione che giunge a seguito della visione di oggetti sacri, il che è analoga a quella descritta ad esempio nei Misteri Eleusini.

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Il luogo in cui si svolgeva l’iniziazione nel papiro di Leida tradotto da Guilmot è il tempio di Osiride ad Abydos, nel quale il culto del Dio aveva origini antiche, risalenti alle prime Dinastie, ed in particolare la parte nota come Osireion. Si tratta del settore, indipendente dal tempio vero e proprio e situato a nord di esso, costruito da Sethi I: si entra tramite un corridoio in discesa diretto da ovest ad est (segno che la rigenerazione seguiva il percorso del Sole-Râ) e lungo circa cento metri, le cui pareti portano incisi testi dei Libri dei Morti; alla fine del corridoio si giunge in una sala di forma rettangolare, al cui centro si erge una piattaforma circondata da un anello di acqua, per accedere alla quale vi sono due gradinate sui lati corti.

Sulla piattaforma vi sono tutt’ora due cavità, le quali si ritiene servissero a contenere il sarcofago del Dio e la testa di Osiride, la reliquia più importante tra tutte quelle riferite ad Osiride: i due oggetti costituivano il centro focale dell’illuminazione come la descrive Guilmot. Attorno all’Osireion, vi erano alberi di Persea, la pianta sacra simbolo di immortalità, e nel papiro di Leida trascritto da Guilmot si dice espressamente: “Tu arrivi nella stanza sotterranea, sotto gli alberi (sacri). Presso il Dio Osiride (ecco)ti giunto, colui che dorme nel suo sepolcro. Allora nel luogo santo ti è dato il titolo di Giustificato” (pag. 84).

Questa descrizione fa pensare all’esistenza di un tumulo funerario eretto sopra l’Osireion sul quale dovevano essere piantati gli alberi di Persea, anche se alcune ricostruzioni fanno invece pensare che esso avesse un tetto aperto al centro da un grande lucernario.

Tratto da Anemos di Leonardo Lovari – Harmakis Edizioni – 2015

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Recollections of people who have actually performed the initiation rituals to Osiris have survived only through some papyrus and stems ranging from the fifteenth century. B.C. to the first century. d.C .: analysis that makes Guilmot in his “Initiates and initiation rites in ancient Egypt” should be placed in parallel with Chapter 125 of the Book of going a day we have briefly summarized above; you will see the ritual as well as various steps in these texts are not always perfectly coincide with the words of the Book, which is probably preserved a more archaic form of initiation.

Please note that Guilmot sees the whole operation initiation as a kind of psychological suffering aimed at a “spiritual perfection”, although it is not clear what he means by “spiritual”, based on “unleashing of emotion”, and its study based, as he himself says, “on joining the philology technique to that of irrational psychology”: the right measures taken by his personal interpretations, with which of course we do not agree, the work done by Guilmot is really important for the knowledge of the actual implementation of technical initiation in ancient Egypt.

 

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The texts studied by Guilmot are three: the largest is just the latest (papyrus 32 T Leiden, written for a named Horsiesis Priest, Prophet of Amon Ra, the first century AD.), So it is affected by the corruption caused by the spread Mysteries of the classics in Egypt, as indeed is also observed in the description of the ritual made by Apuleius in his Metamorphoses. But the comparison with older texts (inscriptions in the tomb of Amenhotep, the priest of Amon under Thutmose III in the fifteenth century BC. And the statue of Hor, prophet of Amon during the XXII Dynasty in the IX-VIII century BC.) Is used to detect the ‘existence of a parallel initiation process among the various texts, even if they do not match either among themselves or with that reported in the Book of Dead (in comparative table: Chapter CXXV left, right, the highlights of the ritual ). This process can be divided into five phases:

1. The acceptance of the initiate in the “holy place” identified with a temple of Osiris and in some cases the offer of a crown of flowers or foliage, which is found in some graves, like that of Tut-ankh- amon. It probably identifies with the crown cap. XIX of the Book of going a day: “Your father Atum has asked this of justification crown on your brow you will live forever”; the crown, symbol of royalty, is also a symbol of power and its circular shape is a sign of the transcendent world. Apuleius also receives a crown, but at the end of the initiatory path, a crown made of palm fronds, whose tips are a symbol of sun rays: the initiate has become an equal of Ra.
2. The descent below ground or passage through the darkness of the pillared hall of the temple alone or accompanied by priests or by Anubis itself (a priest dressed with the God of the mask), replaced in some of the texts reported by Guilmot from transmitting secret or by reading texts, which he supposed to contain initiation formulas. The meaning of “go underground” or otherwise through a dark place is a symbol of death that the initiate must undergo in order to be reborn. A late antique painting depicts the deceased dressed in white, a sign of ritual purity, holding a crown and his left side Anubis who welcomes him into his arms, while on the left there is a sarcophagus, a sign of the body of the deceased He leaves behind; similarly in the Book of what is now the nell’Amduat XII ends, as seen with the Osiris mummy abandoned on dell’Amduat wall while the Sun-Initiate comes out in the form of Khepri in the arms of Atum.
3. Entry into the underground room, or in a similar place and the “justification” of the initiate who becomes maakheru, “just as a voice.”
4. The regeneration, which occurs through a purifying bath in a basin, which is located next to all the temples or, in the case of Abydos, probably in the ring of water surrounding the central platform, of which we shall speak later.
5. The revelation of God and the transcendent light that goes with it and that you reach through the body of the vision of God or of the reliquary of his head or his body in the tomb, an act which constitutes the culminating and final moment of the ritual.

As you can see, the correspondence with the text of the Book of going a day is not perfect: there too we share similar rituals and with a similar meaning, but in a different order and with some passages that are perhaps more consistent with what one would expect as an initiation ritual, such as the purification should precede and not follow justification, what should be the culmination of the rite, while in the texts studied by Guilmot it is replaced by a kind of enlightenment that comes as a result of the vision of objects sacred, which is similar to that described for example in the Eleusinian mysteries.

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The place where the initiation takes place in the papyrus of Leiden translated by Guilmot is the temple of Osiris at Abydos, in which the worship of God had ancient origins, dating back to the first dynasties, and particularly the part known as Osireion. It is the sector, independent of the real temple is located to the north of it, built by Seti I: you enter through a corridor in direct descent from the west to the east (a sign that the regeneration was following the path of the Sun-Ra) and long about a hundred meters, the walls of which bear engraved texts of the Books of the Dead; at the end of the corridor is reached in a rectangular room, the center of which stands a platform surrounded by a ring of water, for access to which there are two tiers on the short sides.


On the platform there are still two cavities, which is believed to serve to contain the tomb of God and the head of Osiris, the most important relic of all those related to Osiris: the two objects were the focal point of enlightenment as He describes Guilmot. All’Osireion around, there were trees of Persea, the sacred plant a symbol of immortality, and in the papyrus of Leiden transcribed by Guilmot expressly says: “You arrive in the underground room, under the trees (sacred). At the God Osiris (that) you come, the one who sleeps in his tomb. Then in the holy place it is given to the title of Justified “(p. 84).


This description suggests the existence of a burial mound erected over the Osireion had to be planted on which the Persea trees, although some reconstructions do however think that it had an open roof in the middle by a large skylight.


Taken from Anemos Leonardo Lovari – Harmakis Edizioni – 2015

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[:it]Magia delle Piramidi, recensione di Silvia Turrin [:en]Magic of the Pyramids, review of Silvia Turrin[:]

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foto Hawass

La civiltà dell’Antico Egitto continua ad affascinare non solo i cultori di archeologia e storia. Simboli imponenti quali la Sfinge e le piramidi edificate per volontà di Cheope, Chèfren e Micerino rappresentano una straordinaria eredità consegnataci a noi posteri dagli Egizi, un popolo che visse sulla Terra guardando al cielo. Negli ultimi decenni, è in atto un forte revisionismo che ha toccato anche la storia archeologica dell’Antico Egitto. Sono stati scritti e vengono ancora adesso pubblicati testi, molti dei quali di dubbio tenore scientifico, che mettono in discussione talune conoscenze di quell’epoca, in primis le datazioni della Sfinge. Maestoso simbolo de Il Cairo e della piana di El Giza, la Sfinge si ritiene sia stata edificata intorno al 2660-2500 a.C., ma taluni personaggi mettono in dubbio la datazione ufficiale lanciando teorie e supposizioni che non hanno ancora trovato riscontro.

Ciò che davvero è certo è che la Sfinge e le piramidi e altri simboli archeologici dell’Antico Egitto sono in pericolo. Il passare del tempo, le tempeste di sabbia, l’erosione causata dalle acque, le escursioni termiche, e poi ancora interventi di restauro inopportuni hanno provocato danni a molti monumenti. Anche l’afflusso di turisti e, addirittura, eventi organizzati ai piedi della Sfinge – come alcuni concerti di musica pop e rock – hanno contribuito ad aggravare la fragilità di quest’opera d’arte che è riuscita a resistere per millenni.

Colui che da decenni sta portando avanti un lavoro di conservazione è il conosciuto Zahi Hawass, archeologo ed egittologo egiziano, direttore degli scavi presso Giza, Saqqara, Bahariya, e la Valle dei Re. Questo lungo periodo di attività archeologica, le ricerche, gli ostacoli, i problemi avuti sin dagli anni Ottanta del secolo scorso vengono da lui raccontati nel libro Magia delle Piramidi. Le mie avventure in Archeologia edito da Harmakis Edizioni (2015). Il saggio, curato e tradotto per l’Italia dalla Dott.ssa Maria Stella Mazzanti è dedicato a Mark Lehner, archeologo, stretto collaboratore dell’Autore. Insieme, per 30 anni, Hawass e Lehner hanno lavorato in Egitto, hanno realizzato scavi, effettuato scoperte incredibili, trovato soluzioni a deterioramenti che sembravano irrisolvibili.

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La Magia delle Piramidi conduce il lettore nella terra dei faraoni, tra sfingi – perché si scopre, leggendo il testo, che ve ne sono altre in Egitto, più piccole – camere segrete e passaggi interni alle piramidi stesse. Zahi Hawass, fornendo dati, riferimenti, immagini, racconta il passato e il presente dei principali simboli dell’Antico Egitto, descrive le spedizioni dei primi archeologi, gli errori commessi e i progetti successivi fondati su un’alta tecnologia compiuti per salvare la Sfinge e per effettuare ricerche al suo interno al fine di scoprire le stanze segrete. Suddiviso in 12 Capitoli e arricchito da immagini che fotografano luoghi e importanti momenti della ricerca archeologica – come il pozzo di Osiride e l’apertura del sarcofago della Regina Shesheshet – il volume intende fare chiarezza scientifica su alcuni punti, ancora controversi, di questa storia egiziana così affascinante. Alcuni progetti, portati avanti grazie all’impiego di robot in grado per esempio di addentrarsi nei passaggi della grande piramide di Cheope, hanno permesso di riportare alla luce altre vestigia, come la piramide di Khut e la tomba del figlio di Teti. Questo e altro ancora viene svelato da Zahi Hawass, l’archeologo egiziano più noto al mondo.

Silvia C. Turrin

Magia delle Piramidi

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foto Hawass

The civilization of Ancient Egypt continues to fascinate not only the lovers of archeology and history. Imposing symbols such as the Sphinx and the pyramids built by the will of Cheops, Chephren and Mycerinus are a unique heritage passed down to posterity by the Egyptians, a people who lived on Earth looking to the sky. In recent decades, it is undergoing a strong revisionism that has also affected the archaeological history of Ancient Egypt. They have been written and are still now published texts, many of them of dubious scientific content, questioning certain knowledge of that time, primarily the dating of the Sphinx. Majestic symbol of Cairo and the plain of El Giza, the Sphinx is believed to have been built around 2660-2500 BC, but some people question the official launching date theories and assumptions that have not been reflected.
What is certain is that really the Sphinx and the pyramids and other archeological symbols of Ancient Egypt are in danger. Over time, dust storms, erosion caused by water, the temperature changes, and then again restorations have caused undue damage to many monuments. Although the influx of tourists and even events held at the foot of the Sphinx – as some concerts of pop and rock music – have helped to exacerbate the fragility of this work of art that has managed to hold on for millennia.
He who for decades is conducting conservation work is known Zahi Hawass, the Egyptian archaeologist and Egyptologist, director of excavations at Giza, Saqqara, Bahariya, and the Valley of the Kings. This long period of archaeological work, research, obstacles , the problems we had since the eighties of the last century are narrated by him in the book Magic of the Pyramids. My Adventures in Archaeology, published by Editions Harmakis (2015). The essay, edited and translated by Italy by Dr. Maria Stella Mazzanti is dedicated to Mark Lehner, an archaeologist, a close associate of the author. Together for 30 years, Hawass and Lehner have worked in Egypt, they have made excavations, made incredible discoveries, found solutions to deterioration that seemed unsolvable.

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The Magic of the Pyramids leads the reader to the land of the Pharaohs, sphinxes between – because it turns out, reading the text, that there are others in Egypt, smaller – secret chambers and passages inside the pyramids themselves. Zahi Hawass, providing data, references, pictures, tells the past and present of the main symbols of Ancient Egypt, describes shipments of the first archaeologists, the mistakes and the subsequent projects based on high technology made to save the Sphinx and search within it in order to discover the secret rooms. Divided into 12 chapters and enriched with images which capture important moments and places of archaeological research – such as Osiris Shaft and the opening of the sarcophagus of Queen Shesheshet – the book aims to clarify some points of scientific, yet controversial, this Egyptian history so fascinating. Some projects carried out through the use of robots can for example go into the steps of the great pyramid of Cheops, they have helped to bring to light other vestiges, like the pyramid of Khut and the tomb of the son of Thetis. This and more is revealed by Zahi Hawass, the Egyptian archaeologist best known worldwide.

Silvia C. Turrin

Magia delle Piramidi

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