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Dante e i fedeli d’Amore

Già nel secolo scorso e nei primi decenni di quello presente la questione della possibile appartenenza di Dante ad un’oscura setta esoterica, i Fedeli d’Amore, ha fatto versare fiumi di inchiostro, senza peraltro raggiungere che modesti risultati.

Questo articolo riassume brevemente i termini del problema, per suggerire infine alcune considerazioni che, lungi dal presentarsi come conclusive, potranno spronare il lettore ad approfondire una tematica affascinante attraverso cui è possibile vedere sotto un’angolazione completamente diversa lo svolgimento della nostra letteratura dalle origini fino al XIV secolo.

Chi sono i Fedeli d’Amore? Dall’ esame semantico-letterale degli scritti di Dante e dei maggiori rimatori del suo tempo l’espressione parrebbe designare semplicemente coloro che, sulla scia della lirica provenzale trobadorica, riconobbero nell’amore una forza spirituale trasfigurante capace di far trascendere la condizione umana, fino a raggiungere la conoscenza e l’amore di Dio. Tramite di questa purificazione progressiva è la donna, non più oggetto di passioni contingenti, di carnali concupiscenze, ma specchio di virtù e celestiale bellezza su cui si riflette, trasformandosi e pur sempre a se stessa rimandando, la bellezza e la bontà divina.

Fedeli d’Amore sono dunque gli Stilnovisti tutti, ma non solo loro: chiunque abbracci questa accezione nuova della parola “amore” in cui si sottende un’esperienza intima dell’essere fondamentalmente religiosa. Di qui una poesia con stilemi ed immagini in comune: luoghi retorici, sottigliezze allegoriche, simbolismi allusivi e inquietanti, lessico oscuro. Siamo d’altronde ancora nel medio evo e non è luogo comune ricordare che nell’età di mezzo tutto o quasi è allegoria, simbolismo, parabola, e al tempo stesso giuoco stilistico, squisita variazione sui medesimi temi, ricerca ossessiva di perfezione.

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Ma c’è qualcosa di più, anche se non molto: i Fedeli d’Amore erano forse una confraternita. Giovanni Villani nella sua “Cronica” (1308) ne fa un laconico accenno ricordando che “una nobile corte” vestita di bianco sfilò in corteo dietro “un signore detto dell’Amore” durante la festa di San Giovanni svoltasi a Firenze nel giugno del 1283 (Lib. VII, cap. LXXXIX).

È bastato questo, nell’assenza totale di altra documentazione storica, a far scatenare fin dal secolo scorso, in un tentativo parossistico di scoprire nuove chiavi interpretative dell’opera dantesca, la ridda di ipotesi che ha trovato poi strenui difensori e implacabili nemici. Cominciò Gabriele Rossetti, il poeta-patriota risorgimentale padre del più noto Dante Gabriele Rossetti. Per lui, che scorge sotto il lessico amoroso della Vita Nuova, della Commedia e dell’opera di altri autori coevi un messaggio politico altrimenti intrasmettibile, finzione poetica e stilemi retorici tradiscono un linguaggio segreto, adoperato da una setta (quella appunto dei Fedeli d’Amore) animata da intenti ghibellini e patriottici con finalità unificative della penisola, a fronte delle tendenze frazionistiche manifestate per tornaconto egemonico dalla Curia romana. Il Rossetti redige anche un primo elenco (poi via via accresciuto dai suoi epigoni) del gergo cifrato impiegato dai membri della congrega: “Amore” è il nome convenzionale del sodalizio e al tempo stesso la devozione per la “Sapienza Santa”; “vita” è l’ideale imperiale; “morte” la corrente guelfa, ecc. L’anno della sua morte (1854) un suo ammiratore e corrispondente, Eugene Aroux, pubblica, attingendo con disinvoltura alla ancora inedita Beatrice di Dante, l’opera tendenziosa Dante héretique revolutionnaire et socialiste, in cui, spingendosi ben oltre il maestro, ipotizza non solo un’appartenenza del poeta fiorentino all’Ordine del Tempio (in forza dell’accenno polemico nella Commedia all’annientamento dei Templari da parte di Filippo il Bello e Clemente V), ma un esplicito rapporto con l’eresia catara (la cui polemica antipapale, i motivi pauperistici e il rigore religioso ricordano talvolta certe posizioni dantesche). Ma ahimè, appena si nominano Templari e Catari spuntano subito fuori gli occultisti, strato più basso della peraltro non disprezzabile, “cultura esoterica”. È così che la questione di Dante e dei Fedeli d’Amore arricchendosi di nuove congetture unite a scoperte strabilianti passa nelle mani di Joséphin Peladan (detto Sar Mérodack), fondatore nel 1888 col marchese Stanislas de Guaita e Oswald Wirth dell’Ordine Cabbalistico della Rosa + Croce, poi di Alphonse Louis Constant (in arte Eliphas Levi), che nelle loro opere estendono ancora l’equazione nei termini seguenti: Fedeli d’ Amore = Catari = Gioanniti = Cabalisti = Gnostici = Ermetisti = Templari = Rosa + Croce. Quelli che seguiranno, sulla traccia di ermeneutiche “esoteriche”, in Italia e fuori, non faranno – tranne rare eccezioni – che accrescere la confusione, contraddicendosi a vicenda e interpretando fuggevoli indizi ciascuno secondo la propria ottica precostituita. Così per il Valli, il Ricolfi, l’Alessandrini, seguaci delle tesi rossettiane, i Fedeli d’Amore (e fra loro Dante) esprimono tendenze filo- imperiali patriottiche con coloriture dottrinali vicine ai Templari e ai futuri Rosa + Croce, ma senza alcun connubio con l’eresia catara. Per l’Evola, che ne accetta il carattere di “milizia ghibellina” (con dei “distinguo” per Dante), essi costituiscono una corrente esoterica superiore iniziaticamente al Catarismo e al cristianesimo in genere, ma già degradata rispetto all’ethos templare, sia a causa del carattere estatico-contemplativo, sia leI ruolo centrale assegnato alla donna vista ora come simbolo dell’Intelletto ora della Sapienza santa, secondo moduli platonizzanti ,ovvero prettamente gnostici (Pistis Sophia). Da Guénon e dal Burckhardt viene invece rilevata l’ascendenza islamica (specificamente sufica con qualche venatura cabalistico-ermetica) nell’opera di Dante: i Fedeli d’amore, data per scontata la filiazione dai Templari, avrebbero avuto nozione, tramite quest’ordine a lungo soggiornante nel Vicino Oriente, delle dottrine esoteriche arabo-ebraiche. Il Reghini individua nella setta una matrice politica ultra-ghibellina, fa di Dante un imperialista pagano e scorge nel linguaggio “segreto” dei fedeli d’amore una concezione iniziatica di stampo pitagorico (la simbologia numerica nella commedia) con forti componenti anticristiane (contrariamente a Guénon) e proto-massoniche (contrariamente all’Evola).

Denis de Rougemont, infine, riesumando le teorie dell’Aroux e del Péladan, anche se con atteggiamento possibilista venato di eclettismo, la versione di un Dante eretico, permeato come gli altri suoi confratelli dalla dottrina albigese, per lui, sulla base dell’assioma non del tutto infondato Trovatori=Catari, anche il grande fiorentino, conoscitore delle tesi provenzali sull’amor cortese, poteva esser rimasto influenzato dall’eresia che nel XII secolo percorse e contaminò tutto il sud della Francia come una lebbra.

Nella molteplicità degli approcci critici come nella diversità dei loro esiti, emergono alcuni punti fermi sui quali tutti questi autori sembrano concordare: I Fedeli d’amore costituivano una società segreta impiegante un linguaggio che si articolava su un duplice binario semantico: quello essoterico della poesia e trattatistica amoroso-galante del tempo, e quello esoterico del messaggio iniziatico-politico per la cerchia ristretta di chi sapeva intendere. Alla setta sarebbero appartenuti non solo Dante, Cavalcanti, Guinizelli, Cino da Pistoia ma anche Dino Compagni, Giovanni Villani, Francesco da Barberino, Cecco d’ Ascoli; come dire il fior fiore della cultura letteraria italiana dal XIII al XIV secolo.

Che ipotesi del genere non fossero completamente infondate e prive di agganci plausibili, è dimostrato dal fatto che lo stesso mondo accademico, nella persona di alcuni suoi rappresentanti, non rimase indenne da certe suggestioni. Solo per rimanere all’Italia, basti ricordare nel secolo scorso Francesco Paolo Perez, titolare di letteratura italiana a Palermo, poi senatore e ministro, che nel 1865 diede alle stampe la Beatrice Svelata, e Giovanni Pascoli, che influenzato dalle sue letture mistico-occultistiche pubblicò nel 1898 Minerva oscura, poi, successivamente, Sotto il velame e La mirabile visione. Ma l’ambiente universitario ortodosso, in mancanza di una documentazione storica probante, posto di fronte alla scarsa filologia (surrogata da un’abbondante ideologia) di molti fra questi esegeti, se lascia cadere nel silenzio le “scoperte” degli esoteristi su Dante e i Fedeli d’Amore (a volte anche per sostanziale ignoranza di alcuni testi in materia) non può tollerare che fra le sue stesse file si coltivino fumose fantasticherie, Avviene così che alla presentazione del volume Minerva oscura all’Accademia dei Lincei, presidente di commissione il Carducci, questi deplorerà le presunte novità scoperte dal Pascoli rimproverandogli la scarsa conoscenza della vasta critica esistente sull’opera dantesca. E il Croce, sempre implacabile contro ogni tendenza misticheggiante, bollerà il secondo volume pascoliano Sotto il velame (fra i più cari al cuore del suo autore) come “singolare aberrazione”.

Non è possibile qui dare conto di tutte le obiezioni che possono muoversi alle interpretazioni cosiddette “esoteriche” della questione, né degli spunti intuitivi felici che a volte le hanno contrapposte alla critica letteraria ufficiale. Ci limiteremo perciò a qualche cenno sufficiente a giustificare almeno le nostre conclusioni provvisorie.

Innanzitutto è opportuno scindere in qualche misura la corrente dei Fedeli d’ Amore (se pure furono mai una setta vera e propria) dallo stesso Alighieri.

Su una tale organizzazione infatti non esistendo, come avvertimmo agli inizi, pressoché alcuna documentazione, ogni ipotesi, ove trovi appigli plausibili, appare lecita. Non è però lecito operare connubi o congetturare filiazioni impossibili in presenza di dati storico-dottrinali incontestabili. Se i Fedeli d’Amore risentirono l’influsso dell’eresia albigese e adottarono la concezione catara sull’ eros e la donna, molto difficilmente potevano al tempo stesso incorporare la regola templare misogina e guerriera.

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È vero che molti Catari furono strenui combattenti, ma in funzione essenzialmente difensiva, allorché si avvidero nella morsa inesorabile che andava stringendosi intorno a loro. Per l’Ordine del Tempio invece l’esercizio delle armi rivestì sempre il carattere di difesa del più debole, mentre l’esperienza bellica secondo l’ethos eroico-cavalleresco fu intesa sempre come via di realizzazione spirituale. È vero che sia i Catari quanto i Templari furono accusati di eresia, ma lontane sono le radici delle rispettive eterodossie: manichea, estatica, orientaleggiante la prima; sufica, operativa, ermetico-alessandrina la seconda. Va inoltre ricordato a tutti i sostenitori della matrice ghibellina dei Fedeli d’Amore, che parimenti sostengono l’influenza albigese e templare sulla setta, l’origine propriamente “guelfa” di ambedue questi fenomeni. Se il catarismo si sviluppò su istanze pauperistiche antitemporali più che realmente anticristiane, e l’alleanza con alcuni grandi feudatari di Provenza e linguadoca fu dettata prevalentemente dal confluire di interessi comuni in quella contingenza storica più che da un effettivo ghibellinismo, l’Ordine del Tempio, come tutti sanno, ebbe il suo patrono in S. Bernardo di Chiaravalle e l’investitura, i vari benefici, i riconoscimenti pontifici non confortano certo una tesi filo imperiale nei suoi riguardi: Rapportando poi la questione a Dante ed esaminandola alla luce di certi passi della Commedia, le posizioni di molti interpreti “esoterici” divengono insostenibili o comunque altamente improbabili.

L’Alighieri innanzi tutto afferma al di fuori di ogni ragionevole dubbio la sua avversione ad ogni eresia, particolarmente a quella albigese, sia facendo rivolgere da S. Bonaventura di Bagnoregio una fervida lode a S. Domenico per la sua opera di difesa dell’ortodossia contro il catarismo {Par., XII, vv. 97-102), sia rivolgendosi egli stesso con trepida devozione a Folchetto da Marsiglia (Par, IX, vv. 73 sgg.) insigne trovatore provenzale divenuto nel 1205 vescovo di Tolosa e successivamente distintosi come uno dei più feroci persecutori, insieme con l’ordine cistercense, dell’eresia contro cui mosse l’esercito guidato da Simone di Montfort.

Viceversa, molti di coloro che i rossettiani, l’Aroux e il Péladan annoverano tra i Fedeli d’Amore vengono inequivocabilmente condannati da Dante e collocati nell’inferno. Così Cavalcante Cavalcanti, e potenzialmente il figlio di lui Guido (pur fra gli amici più cari al poeta) che Beatrice “ebbe a disdegno”, sono posti nel VI cerchio con gli eresiarchi.

Lì, negli avelli infuocati, giace anche l’imperatore Federico II, alla cui corte, a detta di alcuni esegeti, sarebbe stata tenuta a battesimo la setta “ghibellina” del Fedeli d’Amore. Né sorte molto diversa vien fatta toccare al suo segretario Pier delle Vigne, secondo i rossettiani il vero protettore di quell’associazione segreta: mutato in pruno sconta la sua pena nel II girone del VII cerchio in mezzo ai suicidi.

Quanto a coloro che sostengono, come il Guénon e il Burckhardt, la filiazione templare di Dante, viene naturale porre un quesito: se l’Ordine Templare, come è ormai assodato da molteplici studi critici, possedeva profonde conoscenze alchemiche, tanto da esprimere nel simbolo del Baphomet una vera sintesi dei principi della Scienza Ermetica, come è possibile che un suo affiliato accettasse la versione più superficiale e riduttiva di essa, propria degli esegeti profani? dante infatti colloca nella X bolgia gli alchimisti facendoli rappresentare dai due falsificatori di metalli Griffolino d’Arezzo e Capocchio da Siena.

A tutti quelli, infine, che, in assenza di prove documentali accrescono la schiera ghibellina e anticattolica dei Fedeli d’amore con personaggi illustri contemporanei di Dante, suggeriamo almeno di espungere il nome di Francesco da Barberino: questi infatti dal 1327 (anno del rogo di Cecco d’Ascoli) al 1333 figura fra gli ufficiali che affiancano l’inquisitore di Firenze nel suo “ardente” ufficio.

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Bastano questi pochi esempi a far avvertire come, appena si esamini la questione affrontata qui brevemente, anche sulla griglia di elementi eterogenei, essa paia sbriciolarsi e quasi dissolversi fra le mani del ricercatore. E del resto, se si scinde – come noi abbiamo suggerito – la figura dell’Alighieri dal misterioso movimento dei Fedeli nel tentativo di sanare almeno qualche macroscopica aporia, cosa resta realmente, visto che proprio in Dante ricorre più frequentemente l’espressione “fedele d’ Amore” col relativo lessico? Resta, a nostro giudizio, soltanto ,”l’esoterismo di Dante”, con questo termine intendendo però non le straordinarie conoscenze iniziatiche attribuite dagli occultisti a un Dante templare’ Maestro dei Misteri’.

Piuttosto un Dante attraverso la cui immensa dottrina si filtra la complessa cultura classica e medioevale, fatta anche di astrologia, magia, alchimia, come di mitologia, teologia, filosofia. Un Dante (e qui la documentazione storica esiste) in relazione col poeta-cabalista ebreo Salomon ben Jekuthiel (1270-1330) e a conoscenza, lo ha dimostrato inoppugnabilmente il filologo Miguel Asin Palacios, del Kitab el-isrâ e delle Futûhât el-Mekkiyah di Mohyiddin ibn Arabi, opere anteriori alla Commedia di circa ottanta anni, la cui influenza sul poema è difficilmente negabile. Dante conosceva certamente anche il Roman de la Rose con tutte le sue allusioni alchemiche, e non è un caso che alcuni gli attribuiscano la paternità del poemetto anonimo Il Fiore che di quello è un rifacimento ridotto.

Il problema è sempre vedere fino a che punto egli abbia aderito a certe proposizioni ed istanze, o se ne sia semplicemente servito per elaborare un pensiero nuovo, talvolta addirittura antitetico. Giustamente è stato osservato che il grande fiorentino

…spicca assai più come un poeta e come un combattente che non come l’affermatore di una dottrina priva di compromessi

e che

…malgrado tutto Dante abbia avuto come punto di partenza la tradizione cattolica, che si sforzò di innalzare ad un piano relativamente iniziatico…

Certo le suggestioni, quando si affrontano argomenti del genere, sono molte e pericolosamente seducenti. È stata sollevata l’ipotesi che Dante potesse aver mutuato certe conoscenze esoteriche da Brunetto Latini autore del Livre du Tresor in lingua d’oil e del “Tesoretto” in volgare. Ma se così fosse – ci chiediamo – perché mai Brunetto è posto dal suo illustre discepolo nel III girone del VII cerchio infernale, tra la schiera infamante dei sodomiti?

Luciano Pirrotta

Dante e i fedeli d’Amore

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I debiti di Leonardo da Vinci nei confronti di Leon Battista Alberti: la rappresentazione di una “storia”

Leonardo da Vinci non si preoccupa della propria educazione letteraria e della sua preparazione teorica fino al trasferimento a Milano nel 1482, presso la corte di Ludovico il Moro: qui, stimolato forse dalle discussioni scientifiche createsi attorno al cantiere del tiburio del Duomo di Milano, avverte il desiderio di colmare le sue importanti lacune e di competere con le maggiori figure d’architetti, ingegneri ed eruditi allora disponibili.

L’Uomo vitruviano, disegno di Leonardo Da Vinci

Come si può rilevare dai suoi manoscritti dell’epoca, Leonardo accompagna lo studio del latino a quello dei più autorevoli trattati antichi (il De architectura di Vitruvio) e moderni (il De re aedificatoria di Leon Battista Alberti); dalla fine degli anni Ottanta del secolo diventano però più fitti (ma sempre critici) i riferimenti alle opere di Alberti, tanto nei contributi di geometria e meccanica quanto negli studi d’ingegneria navale, d’idraulica e d’architettura – un fertile confronto che si manterrà stabile per oltre vent’anni, e che vede una profonda condivisione di ideali anche a livello socio-politico fra i due geni del Rinascimento. Si può dimostrare questa tesi prendendo in esame, ad esempio, come Leonardo e il genio a lui precedente hanno affrontato il problema di rappresentare una historia.

Non c’è in Alberti indicazione su come vadano disegnate mimiche e pose dei personaggi di una “storia” che non si ritrovi anche negli appunti di Leonardo: ciò fa pensare che quest’ultimo abbia letto il De pictura di Alberti, ed è interessante analizzare non solo come egli ne arricchisca notevolmente i concetti, ma anche come ne modifichi di volta in volta il lessico.

https://www.historiaproject.com/wp-content/uploads/2019/10/8e29708968d835a9367c2d4cae038fac.jpgProporzioni geometriche della facciata della chiesa di Santa Maria Novella, progetto di Leon Battista Alberti

Per fare un primo esempio, se Alberti associa semplicemente a ogni “affetto” uno o più modi di rappresentarlo, Leonardo amplia il discorso portando anzitutto l’attenzione del pittore al dovere di ritrarre quanto vede da sé nella Natura, come fosse specchio di essa: a tale scopo, esorta a portare sempre con sé un taccuino ove annotare tutti i moti dell’animo visibili in Natura, e di studiare quanti più volti e parti del corpo diversi in essa; in secondo luogo, Leonardo raccomanda di indagare molto dettagliatamente le cause dei moti dell’animo, procedendo dalla manifestazione esterna a ciò che la provoca, per ottenere una sorta di inventario antropologico che non avrà valore di “codice universale”, ma sarà sempre un parziale e bizzarro catalogo della varietà in Natura.

                                                                     Illustrazioni di Leonardo Da Vinci

Concludendo la nostra analisi del debito di Leonardo nei confronti dell’Alberti, se per quest’ultimo nella “storia” si può avere un catalogo dei moti dell’animo umano e delle loro manifestazioni, raffigurate conformi alla forza dell’affetto, all’età, al sesso e allo stato sociale del personaggio, Leonardo condivide quanto proposto dall’Alberti ma arricchisce ancora una volta i suoi assunti: mentre nel XV secolo il ritratto di una sola persona o di due di profilo sono ancora rari e privi di “psicologismo”, nella “storia” è possibile una sorta di ritratto collettivo; nelle “storie” esistono infatti combinazioni sempre differenti dei moti dell’animo, e osservando ciascun personaggio si ha a che fare con l’intera natura dell’uomo, si ha prova della varietà del mondo, poiché ogni persona è una pluralità potenziale di doti, capacità, movimenti – si ottiene dunque la fenomenologia dell’anima umana sostanziale, che passa senza la più piccola differenza nella fenomenologia di tutto quanto esiste ed è percepibile (animali, piante, panneggi…).

Silvia Frison

I debiti di Leonardo da Vinci nei confronti di Leon Battista Alberti: la rappresentazione di una “storia”

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MARSILIO FICINO

MARSILIO

Figlio di un medico del Val d’Arno, Marsilio Ficino nacque il 19 ottobre 1433, a Figline. È il massimo rappresentante di quell’Umanesimo fiorentino che, con Giovanni Pico della Mirandola, rimane all’origine dei grandi sistemi di pensiero del Rinascimento e della filosofia del Seicento,basti pensare a un Giordano Bruno o a un Campanella.

Dopo aver studiato sui testi di Galieno, Ippocrate, Aristotele, Averroè ed Avicenna, Ficino fu scelto da Cosimo de’ Medici il Vecchio (chiamato da lui stesso «secondo padre») per riportare a Firenze la tradizione platonica, già reintrodotta da Leonardo Bruni, dal Traversari e dai bizantini Bessarione e Pletone fin dai tempi del Concilio del 1439. A tale missione si aggiunse per Marsilio, nell’arco di trent’anni, l’incarico di tradurre il Corpus Hermeticum, ossia gli scritti del leggendario Ermete Trismegisto, le Enneadi di Plotino e altri testi neoplatonici ancora. Dopo la morte di Cosimo, furono Piero, suo figlio, e poi Lorenzo il Magnifico a sostenere l’opera di traduttore e di pensatore del Ficino. E così, varî incarichi ecclesiastici permisero a Marsilio di dedicarsi interamente tra il 1474 e il 1497 alle traduzioni in latino di Plotino, di Proclo, di Sinesio, di Porfirio, di Giamblico, di Psello e dello Pseudo-Dionigi. L’opera sua di filosofo, invece, egli completò sostanzialmente tra il 1458 e il 1493, con il Di Dio et anima, il De divino furore, il De voluptate, il De Sole, la Theologia Platonica, trattato sistematico sull’immortalità dell’anima, il De vita libri tres sull’igiene fisica e mentale degli studiosi, libro quest’ultimo ricco di spunti magici ed astrologici, derivati da Plotino, da Porfirio, dall’Asclepius e dal Picatrix.

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Una fondamentale importanza nell’opera di questo grande umanista rivestono i numerosi «argumenta» e «commentarii» elaborati in occasione delle sue traduzioni platoniche, tra cui spiccano il commento al Timeo e quello al Parmenide. Mentre il De amore, destinato ad esercitare una formidabile influenza su tutta la letteratura fino all’Ottocento, da Leone Ebreo a Shelley, prendendo spunto dal Convivio di Platone, può pienamente considerarsi un’opera d’autore. Un ulteriore aspetto, determinante per capire la fama europea del Ficino, è costituito dalle sue Lettere, tutte ispirate ad un ideale di saggezza platonica impregnata di forti venature ora poetiche, ora esoteriche e metafische. ( Il reprint delle Epistole, edizione Capcasa 1495 è stato pubblicato dalla Société Marsile Ficin con introduzione di Stéphane Toussaint nel 2011).

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Non è difficile capire come l’opera di Ficino fosse destinata a rivoluzionare una cultura occidentale fino a poco in gran parte estranea al Plotino ed al Proclo «originali», a «tutto» Platone così come al Corpus Hermeticum. Lo si evince da opere assai suggestive quali il De Sole, il De vita e il De amore : il pensiero ficiniano propone una visione dell’uomo con forti affinità cosmiche e magiche, al centro di una «machina mundi» animata, altamente spiritualizzata proprio perché pervasa dallo «spiritus mundi». La funzione essenziale del pensiero umano è di accedere, attraverso una illuminazione immaginativa («spiritus» e «fantasia»), razionale («ratio») e intellettuale («mens») all’autocoscienza della propria immortalità e all’«indiarsi» dell’uomo grazie a quei «signa» e «symbola», segni cosmici paragonabili a geroglifici universali originati dal mondo celeste. L’agire umano in tutte le sue sfumature, artistiche, tecniche, filosofiche e religiose esprime in fondo la presenza divina di una «mens» infinita nella natura, all’interno di una visione ciclica della storia, scandita dal mito del «grande ritorno» platonico.

Marsilio Ficino morì il 1 ottobre 1499 nella sua Firenze, dopo la caduta del Savonarola, mentre l’Europa, di lì a poco, avrebbe riconosciuto la portata epocale del suo pensiero affidato a molte stampe italiane, svizzere, tedesche e francesi delle sue opere.