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Presentazione “La rivelazione della Sfinge” su MARGUTTE

 

Gli egizi antichi ritenevano che la Sfinge fosse depositaria di una sapienza vasta e profonda — così come nei trattati del Corpus Hermeticum è scritto che Thot, il dio della saggezza, abbia nascosto in un qualche luogo in Egitto le sue conoscenze segrete. Questi due fatti sono considerati dagli egittologi come racconti mitici, favole.
Invece in base a quanto ho scoperto ed espongo nel mio La rivelazione della Sfinge, entrambe queste notizie paiono essere puramente veridiche. Vale a dire che la Sfinge è effettivamente custode di una conoscenza arcana e segreta, la quale è inscritta in stele di natura assai particolare, riconducibili proprio ad esseri che si possono dire divini.
Pertinenziali alla Sfinge vi sono tre templi: il Tempio della Sfinge posto di fronte alle zampe della Sfinge, il Tempio della Valle adiacente al Tempio della Sfinge, e poi in aderenza alla seconda piramide, quella detta di Khafra, c’è il terzo Tempio, detto Mortuario, che è collegato al Tempio della Valle per mezzo di una strada rialzata lunga 500 metri. Ebbene secondo gli egittologi questi tre templi costituiscono, unitamente alla Sfinge ed alla seconda piramide, niente di più che il complesso funerario del faraone Khafra (Chefren in greco) della IV dinastia.
Invece questi tre giganteschi ed enigmatici templi raffigurano una precisa e deliberata comunicazione in forma di disegno, inscritto nella piana di Giza come un geroglifico megalitico, sfuggito alle analisi di generazioni di egittologi. La pianta di questi tre templi costituisce un disegno, dal significato inequivocabile ed autoevidente.
Questo documento, tanto concreto quanto pianamente razionale, si vedrà si accordi armonicamente con le diverse diramazioni della Scienza Sacra che da sempre innervano le civiltà della Terra, al punto anzi da costituire, il messaggio della Sfinge, il fondamento archetipico e la chiave di comprensione di quel vasto alveo di conoscenze che la mentalità occidentale, idolatra della più bieca ragione calcolante, non sa più intendere.

Scoprii vent’anni fa il geroglifico megalitico rappresentato dai tre templi pertinenziali alla Sfinge di Giza.
Ed il suo significato mi fu subito evidente: un essere superiore che colpisce con una sorta di raggio il cervello di un pitecantropo. Un disegno affine alla creazione di Adamo affrescata da Michelangelo nella Cappella Sistina, con la differenza dell’essere il geroglifico della Sfinge molto più determinato ed accurato, animato da una precisione che a ben vedere non si può che dire scientifica. Il documento del quale la Sfinge è da millenni custode mostra la creazione dell’uomo, non naturalmente la creazione ex nihilo, bensì la sua formazione e modellazione a partire dai primati meno evoluti, da parte di esseri all’uomo superiori. Detto altrimenti, il geroglifico della Sfinge dichiara che l’uomo discenda dalle scimmie, così come riconosce il pensiero scientifico attuale, con la cruciale differenza, rispetto al pensiero scientifico, intorno alla causa della specificazione dell’homo sapiens, che non fu l’evoluzione fortuita di mutazioni genetiche casuali, bensì un intervento esterno, il quale, quantomeno rispetto all’ambito del pensiero occidentale, deve dirsi esoterrestre.
Mi avvidi appunto di questo messaggio in forma di disegno, dal valore particolarmente preciso e pregnante — che, se da un lato si accorda alle narrazioni religiose più diffuse, a partire del libro di Genesi, dall’altro pare con evidenza avvalorare le tesi di quegli autori che sostengono esservi nei testi sacri la descrizione di operazioni di ingegneria genetica operate da esseri superiori al fine di produrre l’uomo attuale.
Ed anche mi resi naturalmente conto della fragorosa novità che l’opera megalitica in sé costituiva rispetto al panorama delle conoscenze consolidate intorno alla civiltà egizia, anche perché nella trimillenaria conoscenza egizia vi è sì menzione dell’episodio secondo cui il dio Khnum avrebbe forgiato l’uomo sul tornio da vasaio e vi avrebbe insufflato la vita, ma appunto questa narrazione è si può dire secondaria rispetto al patrimonio acquisito dei cosiddetti miti religiosi egizi. Ed anche va considerato che i tre templi della Sfinge che rappresentano il disegno sono detti dagli archeologi essere niente altro che i templi del complesso funerario di un faraone, invece hanno la valenza autonoma loro propria, madornale ed eclatante, di istituire un messaggio, il che dissolve le credenze dell’egittologia secondo cui ogni monumento d’Egitto sarebbe stato voluto dai regnanti quale loro capricciosa tomba.
Cioè mi resi conto che la presenza di questo gigantesco disegno spezzava il senso sia delle scienze accademiche, sia del patrimonio condiviso del mondo occidentale, fino appunto a mettere in discussione il ruolo e la valenza del fondamento stesso del mondo occidentale, cioè la ragione, come più o meno agevolmente si potrà constatare da cosa espongo.


Perché, naturalmente, se è vero cosa asserisce questo disegno geroglifico allora tutto il complesso di credenze che costituiscono l’essenza del pensiero occidentale, dall’evoluzionismo al materialismo scientifico, vengono dissolte, e con loro viene dissolta anche la pretesa storia come concepita dal pensiero occidentale.
Ed ancora va ben considerato che la inconciliabilità dei tre templi della Sfinge con la narrazione storico-antropologica accademica, si afferma non solo quanto al contenuto del documento che i templi racchiudono, ma già anche per la conformazione materiale dei templi stessi. Infatti, proprio questi tre templi sono le opere in terra d’Egitto ad essere in sé le più insolite e misteriose, in quanto costituite da monoliti ciclopici, giganteschi, si può dire assurdi (e ciascuno di questi tre templi è ben più ampio della Sfinge stessa, anche se forse meno appariscente). Monoliti lunghi 9 metri, profondi 3,5 e alti 3, dal peso di oltre duecento tonnellate, gli altri di poco più piccoli ed alcuni ancor più immani, incastrati l’uno nell’altro in modo assolutamente perfetto. Come potè un popolo appena uscito dallo stadio dei cacciatori raccoglitori movimentare e mettere in opera blocchi di calcare di tale stazza? E infatti gli egittologi non hanno la minima idea di come questi templi furono costruiti, si limitano a prendere atto del fatto che questi sussistano e li incasellano nelle griglie della storiografia costruita a tavolino sulla base del darwinismo e del positivismo. Ed ancora questi templi presentano profondi segni di una erosione millenaria, proprio come la Sfinge e il suo recinto — ma ciò non deve stupire, giacché gli egittologi hanno accertato che i monoliti che costituiscono i tre templi furono ricavati dalla asportazione del materiale per il costruire la Sfinge, che come si sa è stata modellata in uno sperone roccioso sulla piana di Giza appunto asportando blocchi di calcare. E si aggiunga che secondo recenti e controversi studi, l’erosione della Sfinge e del recinto in cui è ubicata sarebbero compatibili solo con l’esposizione a abbondanti piogge, che occorsero in sito una decina di migliaia di anni fa. Anche le piramidi di Giza sono misteriose ed irriducibili ai paradigmi della storia quali ritenuti dagli egittologi, ma i tre templi del complesso della Sfinge incarnano tecniche e capacità costruttive che riflettono stadi di conoscenza davvero irriducibili ai paradigmi della scienza occidentale.
Quindi, proprio questi tre templi, indecifrabili e indatabili, costituiscono il gigantesco geroglifico di un essere superiore che colpisce con una sorta di raggio il cervello un ominide dall’aspetto sciocco, evidentemente al fine di provocarne l’evoluzione — gli egittologi non hanno mai notato il disegno racchiuso nelle piante dei templi, pur avendole riprodotte in decine di testi a partire dalla fine dell’800, per il semplice motivo che chi cerca tombe solo complessi funerari può trovare.


Che fare, dunque, del documento che la Sfinge da millenni custodisce? Ovvero, ribaltando la domanda, perché ne ho taciuto per vent’anni?
Quanto più una scoperta è dirompente, tanto maggiore è la responsabilità che essa impone a chi ne sia il testimone.
Se da un lato è autoevidente il significato del messaggio ivi disegnato, dall’altro lato il livello di conoscenza e di coscienza della umanità attuale non è certo più quello di chi il messaggio vergò; anche solo semplicemente per il fatto che il complesso di conoscenze di chi interpreta orienta l’interpretazione, nell’ambito del circolo ermeneutico; nel senso che questo documento nel Medioevo sarebbe stato inteso come la raffigurazione del dio veterotestamentario che crea l’Adamo, mentre oggi che Dio è morto lo si può ricondurre tout court all’ipotesi che gli alieni abbiano modellato l’uomo, mentre in altri ambiti sapienziali si può dire raffiguri un essere non umano, ovvero un Buddha (e mi riferisco alla immagine tibetana secondo cui il genere umano fu creato dal Buddha Avalokhiteshvara, il Buddha della compassione, intervenendo su una scimmia), ovvero altrimenti.
Quindi c’è un primo problema che riguarda la “adeguatezza” dell’interprete, nel senso appunto del grado di duttilità ed abitudine mentale da parte di chi legge il messaggio, perché è chiaro che se si resta ancorati al pensiero materialistico contemporaneo si deve concludere che questo messaggio raffiguri comunque un mito, restando esclusa a priori l’ipotesi che possa dare conto di un evento effettivamente accaduto.
Nonché su questa problematica ermeneutica si innesta il fatto che le verità più importanti, come dice Platone nella Lettera VII, non debbano essere esposte alla derisione, e parimenti nemmeno alla supponenza di chi da un elemento tragga conclusioni in base a cosa pateticamente crede di sapere.
Ma questi aspetti problematici insiti nella responsabilità connaturata alla scoperta non debbono far venir meno la contestuale responsabilità che impone di doversi rendere noto il messaggio custodito dalla Sfinge, e ciò proprio per il fatto che questo messaggio non è da considerarsi un segreto, perché invece esso sta sotto gli occhi di chiunque lo voglia vedere ed è appunto come tale destinato ad essere comunicato. Nella Kore kosmou del Corpus Hermeticum è narrato che Ermete, cioè Thot, abbia deposto le sue stele recanti la conoscenza suprema da qualche parte in Egitto (in un luogo che come suggerisco nel testo è sicuramente identificabile con la piana di Giza), in attesa di qualcuno che imbattutosi in esse fosse in grado di leggerle — e peraltro questo meccanismo, di nascondere un documento affinché sia riscoperto nelle generazioni future, è assai ricorrente nell’ambito del Buddhismo tibetano, con il nome di terma i tesori, e il nome di terton per lo scopritore di testi nascosti e di gonter per lo scopritore di tesori della mente).
Tutti questi aspetti convergono insomma nel doversi essere analizzata la portata del documento della Sfinge nel contesto di una pluralità di scenari, coerenti con la logica va da sé, ma svincolati da quel complesso di credenze che è il pensiero scientifico occidentale.

Antonio Viglino

Black texture dark slate background. Beton concrete surface.
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Il Mandala, l’arte sacra della “centratura”

Mandala è una parola sanscrita che significa “cerchio”; esso indica la forma primordiale che rappresenta il tutto, la completezza e l’unità. Il cerchio, come simbolismo della sfera, racchiude la totalità del mondo. Anche come forma bidimensionale “viaggia senza lasciare traccia”, come il percorso infinito della sua circonferenza intorno a un centro eternamente immutabile.

Questo archetipo antico e durevole risuona profondamente nella psiche umana. Si trova in tutte le culture e in tutte le epoche. Nei miti della creazione di molte civiltà troviamo che il mondo comincia all’interno di un “Uovo Cosmico” – l’universo che si schiude dal ricco nucleo al suo centro. Ora sappiamo che l’universo effettivamente si espande in modo sferico da un piccolo punto adimensionale nella vastità del tempo e dello spazio. E, come nel big bang, la radicale espansione esponenziale dello zigote fecondato sviluppa il corpo umano dividendo le cellule sferiche per creare la forma. Da ovulo nel grembo al seno di nostra madre, ci nutriamo grazie a delle sfere.
Come un archetipo, il Mandala risuona con questi principi che spaziano dal microcosmo al macrocosmo. La forma diventa un diagramma cosmico che modella la struttura organizzativa della vita stessa. Come un modello di arte sacra, rappresenta la centratura del sé in allineamento con il cosmo.

La vita stessa si dispiega “da dentro a fuori”, portando il suo impulso al centro delle sue forme. Al centro di tutte le piante e degli animali c’è un spazio cavo attraverso il quale i fluidi della vita pulsano, cha si tratti di linfa o di sangue. Dalla radice al tronco e ai rami, la linfa scorre nell’albero come la clorofilla scorre nel centro del gambo, e così come i fluidi cerebrospinali pulsano al centro della colonna vertebrale dei mammiferi. La differenza tra fibre naturali e fibre sintetiche è che le fibre naturali contengono un foro nel loro centro che permette alla forza vitale di fluire verso tutte le parti della pianta. Le fibre artificiali non hanno un passaggio per la forza vitale. Tutto ciò che è vivo ha un’apertura al centro dove la forza vitale scorre.

Per armonizzarci con la vita che dobbiamo vivere partendo dal nostro centro e il Mandala è un veicolo per questo movimento di centratura. Carl Jung ha scoperto che il Mandala è un potente archetipo della psiche umana, e potrebbe essere utilizzato come un efficace strumento terapeutico. Nella sua esplorazione pionieristica dell’inconscio, Jung ha osservato il motivo del cerchio che appariva spontaneamente sia nelle proprie opere d’arte sia nei disegni dei suoi clienti. Ha appurato che la voglia di fare dei mandala emerge nei momenti di intensa crescita personale. Il loro aspetto riflette un profondo processo di riequilibrio in corso nella psiche.

Jung si riferisce al mandala come a “l’espressione psicologica della totalità del sé”. All’interno di ogni psiche umana c’è l’unità al centro del nostro Essere. Questo seme del Sé riposa al centro, contenendo sia l’unità primordiale esistente “prima dell’inizio” e la promessa di una unione con un ordine superiore alla fine del viaggio della vita. Così l’archetipo del Mandala risuona sia la totalità primordiale nel grembo della creazione, sia l’unificazione degli opposti attraverso la quale cresciamo verso una più matura definizione.

“Il mandala ha uno scopo conservativo – per ripristinare un ordine preesistente. Ma ha anche lo scopo creativo di dare espressione e forma a qualcosa che ancora non esiste, qualcosa di nuovo e unico … Il processo è quello della spirale ascendente, che cresce verso l’alto tornando contemporaneamente sempre allo stesso punto. (Jung, “L’uomo e i suoi simboli”)

Nel Mandala, le polarizzazioni e le opposizioni – che sono il seme della nostra identità – sono alchemicamente unite in modo che la psiche possa giungere alla pace e alla completezza. Simbolicamente, gli aspetti polari del macro-cosmo e l’individuo sono uniti fra loro. La dualità intrinseca della creazione è stata risolta.

Il Mandala ci porta al centro, rivelando ciò che è al nucleo. Catalizza il processo di trasformazione. Ho lavorato con il Mandala dal 1980 e ho visto la sua magia rivelata nell’esperienza di centinaia di studenti. Può essere semplice come la colorazione di un cerchio, ed esprime le energie di ciò che c’è in superficie, ciò che si trova più in profondità e ciò che si trova al centro della nostra vita. Si può sperimentare anche come “spazio” camminando all’interno del labirinto Dromenon (situato sul pavimento della cattedrale di Chartres), o attraverso la danza all’interno di un cerchio. Quando lavoriamo con il Mandala, il flusso caotico della nostra vita rimane in superficie, mentre ci muoviamo attraverso strati progressivamente più profondi dell’essere.

Creare e interagire con i mandala aiuta a ricalibrare la nostra armonia e integrità. La vita interiore diviene riordinata e risanata. Attraverso il Mandala ci allineiamo con il cosmo, e quando ci sentiamo al nucleo del nostro Essere, attingiamo all’unità da cui il cosmo si manifesta in tutte le sue molteplici forme.  In sostanza, torniamo a casa.

Dana Lynne Andersen è la direttrice dell’Accademia d’Arte, Creatività e Consapevolezza. Un pioniere nell’uso dell’arte e della creatività come mezzi per innalzare la coscienza, Dana insegna ed espone le sue opere in tre continenti.

di Dana Lynne Andersen.

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I primi passi sulla via dell’iniziazione

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Non ero uscita da un’esperienza dolorosa, da un trauma, o da una separazione. Anzi, le mie esperienze adolescenziali nel mondo esterno mi avevano regalato gioie, soddisfazioni ed ispirazioni. Non avevo ancora nulla dalla vita eppure sentivo di possedere qualcosa di assai prezioso: la coscienza. Mi guardavo attorno e mi appariva ben chiaro che i sensi fisici non dicevano tutto, che la realtà era infinitamente più vasta e misteriosa di quello che si prospettava davanti ai miei occhi.

Quando si osserva il passato alla luce della consapevolezza del presente, esso viene completamente reinterpretato. Già a quei tempi cominciavo ad avere un primo, seppur debole ed indefinito “risveglio”. Pensavo: “C’è qualcosa più di quello che vedo con gli occhi fisici. Il mio corpo fisico si addormenta durante la notte, la mia coscienza dorme a sua volta, ma ad un certo punto…mi trovo sveglia in un’altra parte, diciamo, un luogo non fisico. Eppure il mio corpo dormiva, ma io ero proprio in un altro luogo! E’ come se la mia coscienza risiedesse originariamente in un altro luogo, altrove, un luogo non collocabile nello spazio e nel tempo”

Frequentavo il primo anno del ginnasio. Fu l’anno scolastico più intenso e faticoso di tutta la mia carriera scolastica, perché nel liceo classico venivano poste le basi di tutte le conoscenze, nonché la base del corretto parlare: lo studio della grammatica italiana, greca, latina, per poter creare le basi per la traduzione delle versioni. Ma a cosa serviva tradurre brani scritti in lingue che non esistevano più? L’avrei compreso solo in seguito: serviva a creare strutture mentali per organizzare non solo un discorso ma lo stesso pensiero; soggetto, verbo, complemento oggetto, e altri complementi. Chi? Che cosa? Quando? Dove? Perché?  Serviva quindi a definire la struttura causa-effetto della realtà, che è la stessa del pensiero. E’ importante dare una struttura ordinata al proprio pensiero, perché- e questo l’avrei compreso solo in seguito- le intuizioni spirituali possano prendere vita efficacemente solo in una struttura mentale ordinata ed equilibrata. Se le strutture mentali sono troppo ingombranti, tuttavia, esse potrebbero ostacolare il libero fluire della conoscenza spirituale.

mistico

Il 24 marzo è una data che ricordo come un importante anniversario. Non a caso coincideva con l’equinozio di primavera, importante momento per qualunque pratica magica. Quando il sole entra nella costellazione dell’Ariete è un nuovo inizio, e così è stato per me, in quel giorno in cui gli studenti del mio liceo avevano programmato uno sciopero per partecipare ad un corteo-manifestazione.  Improvvisamente mi staccai dal corteo per camminare da sola e mi inoltrai in una strada che conduceva nella zona dove avevo trascorso insieme ai miei affezionati amici quella precedente estate. Un irrefrenabile impulso mi spinse ad entrare in una libreria e, tra i vari libri, uno in particolare mi chiamò. Era solo il primo tra quelli che sarebbero state le migliaia di libri di spiritualità ed esoterismo che avrei letto nel corso della mia esistenza. Quel libro si intitolava “Scopri e sviluppa i tuoi poteri paranormali” e si occupava del settore della “parapsicologia” che costituì per me un trampolino di lancio.  Già ben prima di questo libro mi ero convinta che nell’uomo risiedessero facoltà inesplorate, e che ordinariamente egli utilizzasse solo una piccola parte delle sue potenzialità.  Si ritiene comunemente, infatti, che ben il 70%, se non di più, delle attività e potenzialità cerebrali non venga impiegato. Percepivo già che ci fosse qualcosa di più dell’ordinario cervello, e che quest’ultimo fosse solo uno strumento di qualcosa di non fisico, invisibile ma assolutamente base di tutto ciò che esiste. Ero sempre più convinta che l’esistenza umana fosse ricca di misteri che la scienza non riusciva a spiegare. E’ per questo che mi sentii particolarmente attratta da quel libro.
Quello per me fu solo l’inizio di un viaggio lunghissimo, che mi avrebbe condotto là dove non avrei mai immaginato.

Dopo pochi giorni, durante una mia passeggiata nelle vie del centro città, una forza indefinita condusse i miei passi in una libreria che stava svendendo con lo sconto del 70% molti testi della casa editrice Melita che aveva ristampato importanti testi di esoterismo, spiritualità e magia.  Certi libri chiamano, oltre ogni causa razionale…chiamano perché così deve essere, perché quel determinato libro in qualche modo è già in se stessi, nella propria interiorità profonda. Il libro che in quella circostanza mi “chiamò” fu “La scienza occulta” di Rudolf Steiner.

La complessità del pensiero di Rudolf Steiner è pari a quella della sua opera, che comprende oltre ai testi fondamentali anche le numerosissime conferenze tenute in 25 anni, in un corpus composto da circa trecento volumi. Sulle fondamenta di quella che lui denomina “Scienza dello Spirito” si basa tutto un edificio che racchiude svariati campi del sapere, dalla filosofia alla pedagogia, dalla storia alla scienza, dall’agricoltura alla medicina. Steiner espone i fondamenti di una “disciplina occulta”, intesa come un cammino di conoscenza che ha come obiettivo l’evoluzione spirituale dell’uomo. Secondo Steiner ogni uomo può giungere alla conoscenza dei “mondi spirituali” e avere accesso ai “segreti iniziatici”, risvegliando le facoltà spirituali celate nel profondo della propria anima.  I sistemi di disciplina spirituale e le tecniche di meditazione da lui divulgate provengono da esperienze e scuole antichissime, tramandate da tradizioni spirituali sia occidentali che orientali.

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Secondo Steiner, la certezza del mondo fisico la si può accostare alla certezza del mondo spirituale, in una concezione del mondo spirituale come “spazio animico”. L’antroposofia è, secondo Steiner, la via tramite la quale è possibile conoscere l’uomo interiore, spirituale: la scienza dell’uomo spirituale.

L’antroposofia è una via della conoscenza che vorrebbe condurre lo spirituale che è nell’uomo allo spirituale che è nell’universo. Sorge nell’uomo come un bisogno del cuore e del sentimento. Deve trovare la sua giustificazione sul fatto che essa è in grado di offrire a questo bisogno un soddisfacimento. Può riconoscere l’antroposofia solo chi trova in essa quel che deve cercare per una sua esigenza interiore. Possono perciò essere antroposofi soltanto quegli uomini che sentono i problemi sull’essere dell’uomo e del mondo come una necessità vitale, come si sentono fame e sete.

Cominciai a leggere quel libro che per me è stato fondamentale, e che ho avuto modo di rileggere nel corso della mia vita, trovandovi sempre qualcosa di nuovo e utile. Da subito mi cominciai ad accorgere che i suoi contenuti mi erano già, in qualche misteriosa maniera, familiari. In particolare, nel terzo capitolo de “La scienza occulta”, viene spiegata la costituzione spirituale dell’uomo secondo la Scienza dello Spirito. L’essere umano è costituito dal corpo fisico, parte materiale del corpo umano, condivisa con il regno minerale; il “corpo eterico” è la componente vitale tipica del regno vegetale. Poi c’è il “corpo astrale”, sede delle emozioni e della vita interiore rappresentativa, nonché della percezione neurosensoriale. Infine c’è “l’io”, prerogativa dell’essere umano, che si articola in tre forme animiche (anima senziente, anima razionale, anima cosciente). In particolare, il capitolo “sonno e morte”dava in qualche modo una spiegazione alle esperienze di coscienza che avevo avuto durante il mio sognare infantile. Era come se io già conoscessi intimamente quei contenuti. Leggendo ciò che Steiner scriveva della vita interiore dell’uomo, rimasi colpita dalle indagini chiaroveggenti di Steiner riguardo al passato della Terra e dell’universo. Secondo Steiner la storia fisica come noi la conosciamo è solamente una piccolissima parte esteriore di una storia cosmica che ha origini nei piani spirituali in diverse ere. E poi mi soffermai sul capitolo che impressionò di più: quello della pratica spirituale di sviluppo degli stati di coscienza: immaginazione, ispirazione, intuizione.

Avevo appena compiuto quattordici anni quando cominciai ufficialmente il cammino spirituale, ossia quando, davanti al potere supremo chiamato vita, pronunciai il solenne giuramento che avrei dedicato la mia vita intera allo Spirito.

Era già arrivato per me il momento di praticare.  Già avvertivo, infatti, l’importanza della pratica interiore, che rendeva speciale e peculiare l’esoterismo nei confronti degli altri campi del sapere. Nei testi di parapsicologia erano esposti in maniera chiara alcuni esercizi di visualizzazione, concentrazione, silenzio mentale, che avevano lo scopo di far raggiungere alla mente del praticante il cosiddetto “stadio alfa”. A questo scopo sono essenziali le tecniche di rilassamento.

Le mie letture cominciarono rapidamente ad espandersi. Al termine dell’anno scolastico trascorsi le vacanze estive interamente immersa sia in uno studio teorico, sistematico e attento delle opere esoteriche di vari autori, che nella pratica delle tecniche interiori che cominciavo gradualmente ad apprendere. Parte integrante dei miei studi iniziali vertevano sulla storia dell’esoterismo, che mi consentì fin da subito di conoscere teoricamente gli indirizzi fondamentali e gli autori di quello che, cominciavo a rendermi conto, era un campo vastissimo e variegato. E’ come la storia della filosofia, la storia della letteratura, la storia dell’arte, che si studiano per correnti e autori: la storia dell’esoterismo è cominciata con la nascita dell’uomo e si è sviluppata nello spazio e nel tempo, rivolgendo all’umanità un messaggio universale che però, incarnandosi nella dualità, ha assunto forme e modalità diverse nel tempo e nello spazio.

Questo per me era solo l’inizio di un lungo viaggio che già mi catturava e assorbiva completamente. In quei primi mesi mi era già assolutamente chiaro che avrei dedicato tutta la mia vita a quello che identificavo come “cammino spirituale”, due semplici parole, magari banali, che però indicavano qualcosa che avrebbe interamente condizionato la mia esistenza. Nei primi tempi le letture si concentrarono sugli autori e scuole esoteriche occidentali: l’antroposofia, Cornelio Agrippa, Eliphas Levi, Paracelso, la Teosofia, la Golden Dawn, Papus,  e tanti altri.

Una sera di luglio, dopo tante ore di lettura, chiusi gli occhi e mi immersi in un profondo rilassamento. Improvvisamente, immagini di quello che sembrava un lontano passato, cominciarono a sfilare dinanzi al mio sguardo interiore: mi trovavo in una grande sala e partecipavo ad una cerimonia-rituale, nella quale gli adepti indossavano un’alba bianca. Grande era l’energia sprigionata dalle parole e dai movimenti dei presenti. Dopo lunghi secondi di attenta e stupita contemplazione, quelle immagini furono risucchiate dalla profondità dalla quale erano poco prima sorte. Cosa era stato, sognante fantasia stimolata dalle letture esoteriche? Ricordi di un lontano passato, in qualche modo appartenente a me, o a qualche altra persona? Stavo forse attingendo alla memoria cosmica, nella quale sono contenute tutte le immagini di ciò che è accaduto, e che nell’esoterismo rinascimentale era chiamato “luce astrale”?  Un’immagine di un mio probabile futuro? L’avrei scoperto solo vivendo.

Mi affascinava, in particolare, il concetto di “luce astrale” che avevo appena appreso e che risuonava profondamente in me nella sua profonda verità: una grande ed impersonale memoria immaginativa di pensieri, emozioni, sentimenti, eventi, memoria a cui è possibile attingere in qualunque momento, se opportunamente sintonizzati. Questo concetto mi sembrava intensamente vivo, in quanto percepivo che ciò che leggevo non era carta morta ma era vivente, come era ancora vivente il pensiero di quegli autori che vibrava in me se solo chiudevo gli occhi tra una riga e l’altra.

La mia pratica di quei primi mesi consisteva in un’iniziale seduta di rilassamento. Per alcuni mesi praticai anche il training autogeno di Shultz, in particolare l’esercizio del calore e della pesantezza, che incrementavano il mio stato di rilassamento. In seguito introdussi la concentrazione su un oggetto per almeno cinque minuti, e la visualizzazione, che consisteva nell’esercitarmi a visualizzare forme geometriche o i colori, in particolare il blu. E poi, tecnica importante che non avrei mai abbandonato: il silenzio interiore, di cui solo negli anni successivi avrei compreso l’estrema importanza.

Notavo che quando raggiungevo profondi stati di rilassamento, veniva modificato il mio stato di coscienza; ad un certo punto mi trovavo dinanzi ad un confine, una soglia che presentava due alternative: una era quella di scivolare nel sonno, l’altra quella di esplorare un nuovo stato di coscienza, intenso e profondo. Il corpo diventava impercettibile, anche se la lotta per raggiungere un rilassamento autentico era dura. Il corpo costituisce per definizione un ostacolo che sembrerebbe insormontabile. Occorre tanto esercizio e molta forza di volontà per ottenere un rilassamento vero e proprio. E’ estremamente facile il formarsi di contratture muscolari che persistono nel tempo, fino a diventare croniche; più difficile, invece, decontrarre ciò che è persistentemente contratto, molto spesso a causa di blocchi psicologici od emotivi, ma spesso per la tensione con la quale si eseguono esercizi psichici particolarmente impegnativi.

Il problema che cominciai ad riscontrare negli esercizi era che, una volta raggiunto un discreto rilassamento, nel momento in cui cominciavo a concentrarmi o a svolgere qualsiasi attività interiore come la visualizzazione, sorgeva qualche tensione in qualche punto del corpo, ad esempio nel collo oppure nell’addome. E’ un ostacolo che mi portai avanti per lungo tempo. In seguito notai che, proseguendo nella pratica, la tensione fisica veniva poi ridotta man mano che si approfondiva il livello di concentrazione (fenomeno che poi avrei identificato come “passaggio dalla coscienza cerebrale alla coscienza spirituale”), fino a scomparire del tutto man mano che diventavo capace di raggiungere profondi stati di concentrazione o silenzio interiore. Solo nell’anno seguente avrei compreso l’importanza e il significato della pratica della concentrazione-silenzio interiore, attraverso le opere di Massimo Scaligero. Gli ostacoli degli esercizi non mi scoraggiavano, anzi mi incitavano a continuare nella pratica per migliorare. Mi accorgevo che le tecniche spirituali avevano bisogno di estrema costanza, proprio come in tutti i campi della vita. Nel mondo ordinario, infatti, qualunque professione è basata non soltanto sullo studio teorico, presupposto basilare, ma prende vita solo con la pratica, attraverso l’esperienza e la ripetizione costante.

Hermelinda

Tratto dal libro: MEMORIE DI UNA VIAGGIATRICE DELLO SPIRITO

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La legge esoterica del Tre, fra mistica ebraica, esoterismo vedico ed alchimia.

Uno studio attento delle scienze esoteriche ci permette di collegare tradizioni lontane solo in apparenza, ma che rimandano ad un’unica, atemporale, conoscenza. La legge del tre, enunciata in occidente in modo più divulgativo da Gurdjieff, fu così descritta: “Ogni cosa nel mondo, tutte le manifestazioni di energia, tutti i tipi di azione, sia nel mondo che nell’attività umana, sia interni che esterni, sono sempre manifestazioni delle tre forze che esistono in natura. Queste forze sono chiamate: attiva, passiva e neutralizzante…”

  Ma per comprendere più in profondità tale legge occorre chiarire il concetto di multi-dimensionalità.  Le varie tradizioni spirituali hanno affermato l’esistenza di altre dimensioni oltre quella  materiale. Oggi la teoria scientifica delle Stringhe lo conferma.  Secondo tale studio (perfettamente strutturato matematicamente) esistono almeno dieci dimensioni, oltre le quattro comunemente studiate dalla fisica. Ciò coincide perfettamente con la visione della scienza cabalistica delle dieci Sephirot, come dieci livelli di manifestazione dimensionale del divino nella materia:

sfirot

  Le dieci Sephirot, qui collegate ai centri energetici dei Chakra, non sono soltanto dei piani di esistenza fisica, ma simboleggiano qualità, virtù, stati di coscienza, che l’essere umano deve raggiungere, per elevarsi spiritualmente. In termini fisici si tratta di aumentare la propria frequenza vibrazionale, portando ogni aspetto di sé ad un completo servizio della luce divina, massima vibrazione. Tale vibrazione aumenta velocemente mediante la Bhakti, l’amore verso Dio. Guardiamo meglio queste dimensioni, per paragonarle poi alla tesi scientifica delle Stringhe. L’uomo incarcerato nel proprio falso ego vive al livello dei tre chakra inferiori, che corrispondono alle quattro sephirot più basse; chi non riesce ad andare oltre queste vibrazioni ancora meccaniche ed istintive non può che percepire solo le quattro dimensioni classiche del mondo materiale. Chi riesce a portare il proprio stato di coscienza oltre l’animalità inizia a percepire altre dimensioni.  Le Sephirot in basso sono qui rappresentate:

sfirot1

  Nella Scienza Sacra della Kabbala ritroviamo una sintesi perfetta dell’intero sapere esoterico, comprendente astrologia, alchimia e psicologia sacra. Da un punto di vista fisico Malkut corrisponde alla dimensione Tempo (“Il tempo è il mio territorio” diceva Goethe) e l’uomo vive una dimensione materiale grazie al tempo. Mentre  Netzach, Iesod e Hod rappresentano le tre dimensioni spaziali: altezza, larghezza e profondità:

Sephirot Psicologia esoterica

e Kabbalistica

Guna (condizionamento materiale) Dimensione spaziale Lavoro alchemico
Netzach La Vittoria

(A questa dimensione è associata Venere, l’amore materiale, distorsione di Prema, amore puro)

Rajas (Passione)

Altezza

(La Vittoria è un salire verso l’alto; come la Passione può trascinare verso il basso,  l’Amore può portare fino all’altezza suprema: Dio)

Lussuria da trasformare in Amore

(fase Rubedo)

Iesod Il Fondamento

(A questa dimensione è associata la vita organica, ripetitiva e gestita dagli istinti)

Tamas (Ignoranza) Larghezza

(Il Fondamento è la Base, la lunghezza su cui si costruisce ogni cosa. Può degenerare nella staticità piatta della palude o diventare Servizio continuo, come una retta infinita)

Pigrizia

da trasformare in Servizio

(fase Nigredo)

Hod La Gloria

(A questa dimensione è associata l’intelligenza, il Logos)

Satva

(Virtù)

Profondità

(L’intelligenza, che scava ogni fenomeno in profondità, può diventare ipocrisia o glorificazione di Dio)

Ipocrisia da trasformare in Verità Spirituale  (fase Albedo)

In realtà la Scienza delle Sephirot è inesauribile, ma questo schema può essere di grande aiuto per iniziare il lavoro su sé stessi. L’essere umano si trova prima di tutto a fare i conti con la sfera di Malkut, il Regno opaco della materia con tutte le sue leggi limitanti; cosa fare? Prima di tutto occorre svolgere il proprio dovere (come suggerisce Sri Krishna ad Arjuna nel secondo Capitolo della BhagavadGītā ); assumendo  le responsabilità del nostro Dharma purifichiamo noi stessi e ciò che ci circonda; colui che non compie i propri doveri quotidiani come potrà lavorare sulle tre Sephirot successive? Come potrà trasformare la lussuria in amore, la pigrizia in servizio e l’ipocrisia in verità? Abbiamo tutti un grande compito da svolgere, come ha detto il Maestro Aïvanhov: “Un giorno l’universo tornerà ad essere luce e rientrerà nel suo stato primordiale di purezza e trasparenza. […] La materia è altrettanto sacra, altrettanto santa quanto lo spirito, perché figlia dello spirito.” Si tratta di fare una grande opera vibrazionale, su sé stessi e sulla propria realtà, solo così l’opacità della materia recupererà la trasparenza dello spirito. Come possiamo accelerare tale processo?

Lavorando con la Sephirot successiva, che corrisponde al chakra del cuore: Tiferet, il Sole, la Bellezza Suprema. Non a caso il neoplatonismo indicava nella contemplazione della bellezza una via maestra per elevare l’anima al divino. La Bellezza suprema coincide con il Bene e la bontà suprema, ecco il grande nesso tra Etica ed Estetica che l’umanità ha smarrito; non ci si può stupire che una società che coltiva brutture e orrori degeneri anche eticamente…Ecco il ruolo santo dell’artista, colui che può far agire la potenza vibrazionale di Tiferet sul mondo. Per fare ciò l’artista stesso deve lavorare sulle sfere più basse, purificandosi in modo tale da poter ricevere le forme assolute della Bellezza. Così hanno fatto uomini come Leonardo, Raffaello, Goethe, Bruckner, Mahler e tanti altri…I tre Guna nell’esoterismo vedico riassumono tutti i livelli di condizionamento materiale a cui la coscienza è soggetta. La scienza dei Guna proprio perché indica le nostre catene ci indica anche il modo per spezzarle. In realtà nella nostra caduta libera siamo in possesso di un formidabile paracadute, il paracadute della conoscenza vedica, ma bisogna essere consapevoli dell’esistenza di questo paracadute per poterlo azionare. Ma qui sorge un antichissimo problema filosofico: come conciliare il forte determinismo dei guna col libero arbitrio? Per rispondere a questa domanda dobbiamo prima analizzare in modo corretto ognuno dei tre guna. Krishna inizia dicendo:

    sattvam rajas tama iti / gunāh prakrti-sambhavāh / nibadhnanti mahā-bāho / dehe dehinam avyayam.  ( Cap. 14, verso 5)

    Sattva, Rajas e Tamas sono i tre guna, i tre legami prodotti dalla natura materiale; [Arjuna] dalle braccia potenti, essi condizionano la coscienza dell’essere vivente eterno quando assume un corpo.

   Krishna ci informa subito dicendo che l’essere vivente, l’anima, l’energia di pura coscienza, in realtà è incondizionato nella sua natura eterna, ma nell’assumere un corpo l’essere è come costretto a subire il giogo di queste tre influenze. Ogni guna può essere paragonato ad una macro-struttura, ad una dimensione fondamentale dell’energia materiale, così come lo spazio stesso è strutturato secondo tre dimensioni (che corrispondono in realtà, come vedremo, ad  ognuno dei tre guna). Una volta immersi nello spazio, a causa dell’identificazione col corpo, non possiamo che muoverci in lunghezza, in altezza o in profondità; muoversi in altre direzioni o dimensioni significherebbe trascendere la natura dello spazio materiale; analogamente una volta immersa nella mente materiale

la nostra coscienza potrà muoversi secondo le strutture del Sattva, del Rajas e del Tamas. Vediamo queste strutture in dettaglio:

   tatra sattvam nirmalatvāt / prakāsakam anāmayam / sukha-sangena badhnāti / jñāna-sangena cānagha.  (cap. 14, verso 6)

   Il Sattva, essendo il più puro, illumina e purifica l’anima da ogni impurità; esso condiziona la coscienza legandola al benessere e alla conoscenza, o [Arjuna] senza-peccato.

    Chi vuole svegliarsi durante un magnifico sogno? Nel Sattvaguna la nostra coscienza è legata all’illusione materiale in modo armonioso,  il benessere interiore ed esteriore proseguono di pari passo e le felicità sembra essere qualcosa di concreto…La conoscenza è un nostro possesso naturale e senza sforzo la nostra mente riesce a cogliere verità sempre più elevate. Ecco perché il Sattva  è una dimensione preziosa e pericolosa nello stesso tempo, in tale stato l’illusione non provoca il dolore che analizzeremo nei guna successivi; molti restano legati a questo guna per molte vite, senza rendersi conto che si tratta di una gabbia d’oro, una superba illusione che incatena la nostra coscienza alle quattro sofferenze fondamentali: nascita, malattia, vecchiaia e morte. Ma un uso corretto del Sattva è la benedizione più grande, poiché solo in questa dimensione la mente può iniziare a comprendere le verità superiori e i metodi per realizzare la vera felicità, dove non esiste alcuna sofferenza. Ecco perché le persone sattviche dovrebbero ricercare un maestro spirituale per non sprecare inutilmente il guna più adatto al percorso interiore. E di solito queste persone sono alla ricerca del Maestro e lo cercano nei libri, nelle tradizioni, nella scienza, nella filosofia…Ma senza la guida adatta anche loro rischiano di perdere questa dimensione di serenità e benessere relativo. Ma coloro che hanno compreso la conoscenza vedica sanno come utilizzare questo guna. Esso è come una piattaforma che può essere usata per attraversare l’oceano della sofferenza e del ciclo di nascita e morte, il Sattva è una zattera ideale…

Abbiamo visto che il guru è colui che ci guida in questa navigazione, ma ora dobbiamo comprendere come sviluppare sempre più il Sattva, dato che ci troviamo in un periodo storico dell’umanità dove non predomina questo guna. Anche in altri testi vedici Krishna consiglia di coltivare questo guna, poiché è l’unico dal quale possiamo trascendere ogni condizionamento materiale. Perché? Perché esso ci consegna due chiavi importanti per aprire la porta del cammino dello yoga: il benessere e la conoscenza. Come si può svolgere qualsiasi compito quando la nostra mente è immersa nel dolore? Come meditare su Dio quando un atroce mal di denti ci attanaglia?  Il saggio autentico usa subito la propria salute fisica e mentale per concentrarsi sulla pratica interiore e non per andare alle Bahamas…L’altra chiave è la conoscenza. Ma davvero sattvica è la conoscenza che ci parla della trascendenza; come ogni aspetto materiale anche la conoscenza è influenzata dai tre guna. I testi vedici ci offrono questa conoscenza, ma se la nostra mente è poco sattvica comprenderà ben poco di queste leggi…La Bhagavad-Gītā ci indica come coltivare il Sattvaguna:

“ L’azione dettata dal dovere e compiuta senza attaccamento, senza attrazione e repulsione, e senza desiderio per i frutti che ne derivano, è influenzata dal Sattva. […] chi compie il proprio dovere…con grande determinazione ed entusiasmo, impassibile nel successo o nel fallimento, è una persona situata nel Sattva. […] Anche il cibo preferito da ogni persona appartiene a tre categorie che corrispondono alle tre influenze della natura materiale. […] I cibi graditi a coloro che sono situati nel Sattva accrescono la durata della vita, purificano l’esistenza e danno forza, salute, felicità e soddisfazione. Questi alimenti sono succosi, grassi, sani e graditi al cuore.”

Dobbiamo esaminare due aspetti: l’azione e il cibo. Ciò che manifestiamo e ciò che accogliamo determina il guna che ci influenzerà maggiormente. Se ci accorgiamo di non compiere le nostre azioni nella modalità indicata dalla Bhagavad-Gītā allora il Sattva è poco presente; ma come è possibile modificare le nostre azioni se sono proprio influenzate da altri guna? Abbiamo due possibilità: cercare la compagnia di persone sattviche o sforzarci di agire in modo diverso, diventando consapevoli delle nostre azioni meccaniche. Ogni tipo di yoga si basa su uno sforzo cosciente. Perché, altrimenti, Krishna starebbe trasmettendo questo sapere esoterico? Se non avessimo la possibilità di osservarci e di correggerci la conoscenza non avrebbe alcun valore. Vivere secondo questo sforzo viene indicato in sanscrito col termine Sadhana. Chi ha voglia di alzarsi alle tre del mattino per fare una doccia, recitare dei mantra e leggere la  Bhagavad-Gītā? Eppure quante persone fanno sforzi ancora più grandi per poter godere di piaceri effimeri o per denaro? Qui si inserisce il tema del libero arbitrio. Una volta ricevuta la conoscenza esoterica la coscienza può scegliere; già il semplice fatto di leggere o ascoltare questa conoscenza purifica la nostra coscienza, mettendola in grado di scegliere. Anche se siamo costantemente sotto l’influenza dei tre guna ad ogni istante la nostra natura trascendente si può manifestare. Come scriveva giustamente Schopenhauer (che aveva ben meditato sulla Bhagavad-Gītā):

“  La libertà dunque non è eliminata dal mio discorso, ma soltanto spostata, cioè portata dal territorio delle singole azioni, dove sappiamo che non la si può incontrare, più in alto, in una regione superiore, ma non facilmente accessibile alla nostra conoscenza, il che vuol dire che è trascendentale.”  Schopenhauer aveva compreso, anche grazie allo studio dei testi vedici, che la coscienza, l’essere-in-sé, ciò che è supera il mondo fenomenico, è libero, incondizionato; ma questa libertà si esprime nel mondo fenomenico attraverso il desiderio, che il filosofo chiamava Volontà. Il nostro desiderio è sempre libero ed è in base ad esso che la scintilla d’energia, la Jiva, si è ritrovata a dover seguire gli ordini dei guna. Ma nell’istante in cui il desiderio dell’anima cambia direzione anche i guna iniziano a trasformarsi. Certo, il mutamento dipende dal livello di coscienza della persona e dall’intensità del desiderio. Può esserci un cambiamento radicale o graduale. La storia di ogni essere umano ci mostra tanti esempi di questi mutamenti. In ambito religioso, e non solo, si parla di conversione. William James ha notato in proposito:

“ Le conversioni, sia politiche o scientifiche o filosofiche o religiose, sono uno degli altri modi coi quali le energie prigioniere vengono messe in libertà.  Esse unificano e mettono un termine ad antiche interferenze mentali. Il risultato è la libertà…”  Questo accade proprio perché vi è una irruzione di un’energia libera in una dimensione determinata, fenomenica. Abbiamo già visto che questa energia è l’anima stessa, la Jivashakti, la vera fonte della nostra coscienza, ciò che noi siamo realmente e ontologicamente. La coscienza (sempre libera però immersa nel sogno dei guna) si manifesta attraverso la mente nel cervello e modifica la direzione che il guna predominante stava svolgendo. Ormai vi sono nuovi studi e nuovi paradigmi scientifici che dimostrano l’esistenza di una coscienza autonoma rispetto alla materialità del cervello. Gli studi del premio Nobel  Sir John Eccles, sulle sinapsi, hanno portato a queste conclusioni scientifiche: “L’ipotesi interazionistica ecclesiana si fonda sul concetto secondo cui tutti gli eventi mentali e le esperienze rappresentano combinazioni di eventi mentali unitari chiamati psiconi. […] L’interazione reciproca tra mente e cervello sarebbe dunque caratterizzata da un’interazione che si svolge in modo unitario tra uno psicone ed un dendrone che gli corrisponde. […] Secondo Eccles, gli psiconi avrebbero vita autonoma in un loro mondo: il mondo degli psiconi, cioè il mondo dell’Io.”

  Uno dei massimi fisici del mondo, Roger Penrose, ritiene che la coscienza non sia riducibile a dei semplici meccanismi elettrici e chimici del cervello; del resto non vi è alcuna prova del fatto che la coscienza sia prodotta dal cervello; cervello e coscienza sono semplicemente concomitanti, come lo sono un’orchestra sinfonica che suona a Parigi e una radio che ne sta trasmettendo il concerto. È per pura ideologia che certi studiosi continuano a credere che la coscienza e l’Io siano dei prodotti della materia; in realtà  altri studi scientifici  affermano:  “I tentativi di riprodurre il tutto artificialmente servendosi dei mezzi classici non hanno mai funzionato. C’è voluto del tempo per risolvere il rompicapo: le proteine approfittano direttamente degli effetti quantistici per compiere attività che risulterebbero altrimenti assolutamente impossibili. In particolare, le proteine si avvantaggiano dell’effetto tunnel.” Inoltre: “Penrose e Hameroff ci dicono che l’origine della coscienza non è nel cervello ma in un ‘mondo assoluto’ come la schiuma quantistica sulla scala di Planck. Non ci sono arrivati facendo speculazioni astratte avulse dal contesto della realtà, ma semplicemente analizzando le funzioni specifiche del cervello e riuscendo a trovare una caratteristica  strutturale – il microtubulo – che trasforma il cervello in una centralina in grado di connettersi con…il mondo delle idee.”  In sostanza la nostra coscienza è libera ma deve avvenire uno sforzo, una sorta di shok perché essa possa intervenire a livello quantistico e modificare i nostri determinismi mentali. È qui che la psicologia è ancora del tutto insoddisfacente e dogmatica; come può la psicologia essere di reale aiuto all’essere umano se non comprende che la coscienza non è il cervello?

Solo grazie a questa comprensione è possibile poi operare sulle relazioni tra mente e cervello. Una coscienza risvegliata dalla conoscenza vedica può decidere se modificare la mente verso il Sattva; ma la modalità che aiuta molto ad acquisire il Sattva è la compagnia di persone sattviche; la nostra mente è influenzabile sotto diversi aspetti, ma è soprattutto l’aspetto sociale che determina la struttura mentale dell’individuo; su questo punto moltissimi studi psicologici e sociologici dimostrano questa verità. Se analizziamo le storie delle grandi conversioni ritroviamo sempre  questi due elementi: l’incontro con una conoscenza superiore o con persone che si trovano ad un livello di coscienza superiore, o entrambe le cose.  Passiamo ora ad un argomento molto importante, purtroppo sottovalutato dalla psicologia odierna, il cibo. In realtà nella cultura vedica viene considerato alimento tutto ciò che entra a contatto con i nostri sensi. Quindi non è cibo solo ciò che ingeriamo, ma anche ciò che vediamo, ciò che ascoltiamo, ciò che tocchiamo e ciò che odoriamo. La visione e l’ascolto sono le due fonti più rilevanti, poiché la mente è molto influenzata dalle immagini e dai suoni.

Quindi quando Krishna tratta di cibi Sattvici fa sì riferimento a ciò che viene cucinato e poi ingerito, ma si riferisce anche a immagini e suoni sattvici. Dato che il cibo solido e liquido viene assunto più di una volta al giorno e tutti i giorni la cultura vedica lo considera giustamente fondamentale. Ciò che mangiamo struttura la nostra mente. Questa nozione è espressa anche nella  Chāndogya Upanişad: “ Il cibo mangiato si divide in tre parti: la parte più grossolana diventa escremento, la parte più sottile diventa corpo, la parte ancora più sottile diventa mente. […] Quando il cibo è puro, c’è purezza della mente.” Ogni contatto con l’energia materiale significa contatto con i guna, con una certa struttura e vibrazione; la vibrazione dei cibi sattvici rende la mente sattvica, come il fuoco rende infuocato tutto ciò con cui viene a contatto.  Quali sono questi cibi? Krishna li ha sinteticamente descritti: sono cibi sani, succosi, adatti alla salute umana. la tradizione dello yoga indica in questo senso l’alimentazione vegetariana come l’alimentazione sattvica; cereali, frutta, verdure, latte portano la mente ad una vibrazione sattvica, pronta per la conoscenza e la felicità. Possiamo già comprendere da ciò i gravi danni che le abitudini non-vegetariane della società moderna apportano alla psiche umana. Oggi diversi studi scientifici stanno avvalorando questa tesi vedica, come le ricerche del dottor Kaplan dell’università canadese di Calgary, che hanno dimostrato quanto un’alimentazione vegetariana sia decisiva per evitare stati depressivi. Infatti vitamine e minerali presenti in frutta e verdura influenzano la mente in modo anti-depressivo, riducendo anche stati d’ansia. Il dottor Eric Brunner ha dichiarato in uno studio pubblicato sul British Journal of Psychiatry che i livelli antiossidanti presenti nella frutta e nella verdura hanno un notevole effetto protettivo nei confronti della depressione.

Krishna indica non solo cibi vegetariani ma cibi sani, naturali. Con le industrie alimentari sono nati cibi con additivi chimici, come i coloranti e i conservanti, i quali hanno un effetto negativo sulla mente, non rientrando nella naturalezza del  Sattva: “I coloranti artificiali per alimenti dovrebbero essere vietati nell’interesse della salute pubblica. Un gruppo di ricercatori dell’Università di Southampton sostiene che la rimozione di queste sostanze dai cibi farebbe calare i livelli d’iperattività nei bambini piccoli. Il 20 luglio 2010 è entrato in vigore il Regolamento europeo n. 1333/2008, che impone la frase ‘può influire negativamente sull’attività e l’attenzione dei bambini’ sull’etichetta dei prodotti colorati con E102, E104, E110, E122, E124 ed E129”.  La conoscenza vedica possiede da sempre questa conoscenza sottile che ci aiuta a vivere in modo sano; la società moderna, invece, sta sprofondando nella catastrofe e a fatica la ricerca scientifica ritrova quelle verità che la Bhagavad-Gītā trasmette da millenni. Il lettore sa ora come alimentarsi per avere una mente serena e illuminata. Le scritture vediche indicano anche i luoghi sattvici: le foreste, i boschi, la campagna; vivere a contatto con la natura sviluppa il Sattva. Passiamo ora ad analizzare gli altri due guna,  il Rajas e il Tamas.  A proposito del Rajas Krishna dice:

   rajo rāgātmakam viddhi /   trisnā-sanga-samudbhavam / tan nibadhnāti kaunteya / karma-sangena dehinam  (cap. 14, verso 7)

   Sappi che il  Rajas, o figlio di Kunti, è caratterizzato da ardenti passioni; esso è  fonte di bramosia e di attaccamento e lega la coscienza dell’anima ai frutti delle azioni.

  Il Rajas, o rajoguna, è il responsabile delle azioni e riempie il cosmo intero di passione; mentre il sattva garantiva l’equilibrio e l’armonia il rajas è la dimensione dei desideri ardenti, del fuoco inestinguibile  di coloro che vogliono godere dei miraggi del mondo materiale. Quali sono gli effetti di questo guna su coloro che ne sono dominati? È facile intuirlo, ma Krishna così afferma: “…dal rajas si sviluppa l’avidità”  È per questo che le persone rajasiche non potranno mai essere soddisfatte, sempre in ansia per la realizzazione dei propri desideri e mai sazi, anche quando qualcosa di effimero si realizza. In questo stato di coscienza l’anima sperimenta ansia, angoscia e non può di certo dedicarsi alla conoscenza. Ecco perché questo guna non deve mai prevalere. Occorre quindi evitare la compagnia di persone dominate dal Rajas. Anche i luoghi rajasici sono sconsigliati.  Le scritture vediche considerano le città luoghi dove predomina il rajoguna.

Per quanto riguarda il cibo Krishna afferma: “ I cibi troppo amari, troppo aspri, salati, piccanti, pungenti, secchi e bruciati sono preferiti da chi è dominato dal Rajas. Essi generano sofferenza, infelicità e malattia.” Una cucina a base vegetale troppo cotta o troppo salata e piccante è da evitare, poiché aumenta l’aspetto rajasico della nostra mente. È da notare il fatto che ogni guna tende a volerci dominare e cerca di mantenere la propria influenza; più coltiviamo un guna e più sarà difficile sfuggire alla sua influenza; ecco perché una persona dominata da un guna tenderà a ricercare qui cibi e quelle compagnie che lo rinforzano. Ma il guna da abbandonare maggiormente è il Tamas. L’uomo passionale può anche passare con una certa semplicità alla virtù del Sattva, ma colui che è immerso nell’oscurità del Tamas rischia di restarvi per molte vite…Così Krishna descrive il terzo e ultimo guna:

   tamas tu ajñāna-jam viddhi / mohanam sarva-dehinām / pramādālasya-nidrābhis / tan nibadhnāti bharata.

   Sappi, o discendente di Barata, che il Tamas ha origine dall’ignoranza ed è causa di illusione per tutte le anime; esso incatena la coscienza alla follia, alla pigrizia e al sonno.

   Mentre l’essere umano rajasico può ancora intravedere la luce del sattva, l’essere perduto nel tamas rischia di sprofondare nell’oscurità più devastante. Ecco perché una reale conoscenza dei tre guna dovrebbe essere alla base di una società davvero civile; l’influenza del tamas dovrebbe essere evitata il più possibile attraverso una educazione adeguata, ma il problema dalla società moderna consiste proprio nel fatto che essa è dominata proprio dal tamas…Ciò rende questa conoscenza di inestimabile valore. La coscienza intrappolata nella prigione del tamas soffre terribilmente e causa sofferenza a tutti gli altri esseri; l’essere umano, in preda alla follia, alla pigrizia e alla sonnolenza, come può aiutare sé stesso e gli altri.

È da subito chiaro che l’uso di droghe è del tutto tamasico. Eppure la società moderna è molto indulgente (per ovvi interessi economici) verso sostanze come la nicotina, l’alcol, la caffeina, come se si trattasse di mali minori. Ma l’effetto che queste sostanze hanno sul corpo e sulla mente è del tutto tamasico. La Bhagavad-Gītā è molto seria al riguardo, soprattutto quando afferma: “…chi muore sotto l’influenza del tamas rinasce nel regno animale.” A differenza di molte scuole pseudo-spirituali new age che affermano l’impossibilità di regredire in forme animali una volta raggiunta la forma umana, la tradizione vedica afferma invece  che questa possibilità esiste ed è molto probabile in una società come quella moderna. Perché ciò accade? Perché la forma che l’anima assume nella vita successiva incarna perfettamente lo stato di coscienza dominante; se l’essere umano ha scelto di degradarsi riducendo la propria coscienza allo stato tamasico tipico degli animali il karma lo esaudisce. È sempre il nostro desiderio che decide. Se desideriamo regredire torneremo ad assumere la forma di un cane o di una tigre…Ecco perché tutti i saggi autentici affermano in modo perentorio di abbandonare totalmente ogni tipo di influenza tamasica, in particolare quella dei cibi e delle droghe. I cibi tamasici sono così descritti: “ Il cibo cotto più di tre ore prima d’essere consumato, privo di gusto, decomposto e putrido, e il cibo costituito di avanzi e di cose intoccabili, piace a coloro che sono dominati dalla più oscura ignoranza.”

Ecco perché l’alimentazione vegetariana è decisiva per una società etica e sana nel corpo e nella mente, poiché il consumo di carne, pesce e uova è del tutto tamasico. Il verso della Bhagavad-Gītā è molto chiaro, parla esplicitamente di cibi in decomposizione e putridi. Cosa vi è di più decomposto e putrido di un cadavere? Eppure il mondo intero considera, come diceva Plutarco, questi cadaveri dei manicaretti squisiti…È l’influenza del Tamas, dell’ignoranza, che impedisce a molte persone di rendersi conto che stanno mangiando un corpo morto…Non a caso i grandi artisti e i grandi filosofi dell’umanità erano vegetariani, o, come si diceva nell’antichità, pitagorici. Oggi molte ricerche mediche hanno ormai dimostrato che non solo non è necessario per l’essere umano nutrirsi di carne e pesce, ma questi “cibi” producono nell’organismo umano gravissime malattie, come tumori e problemi circolatori e cardiaci.  Ma la conoscenza vedica, sintetizzata nella Bhagavad-Gītā, affermava da millenni: “ Chi rinuncia alla carne e all’alcol, è bene intenzionato, si impegna ed è puro, non soffrirà di pazzia, interna o esterna che sia la causa. Egli conserva le sue facoltà mentali.” Queste parole tramandate dalla medicina āyurvedica si basano sulla conoscenza dei tre guna e sugli effetti che le sostanze tamasiche hanno sul corpo e sulla mente. In un verso dello Srimad-Bhagavatam possiamo leggere:

“ Quando l’influenza dell’ignoranza prevale sulla passione e sulla virtù, copre la coscienza individuale e rende sciocchi e ottusi. Una persona influenzata  dall’ignoranza cade nel lamento e nell’illusione, dorme eccessivamente, nutre false speranze e ha un comportamento violento verso gli altri.”

  Lo stato tamasico è devastante quando diventa lo stato predominante. Ogni Guna cerca d’avere il predominio, ma sta allo sforzo di ogni essere umano coltivare il sattva, evitando così di sprofondare in uno stato di coscienza del tutto oscurato. La famiglia e le scuole dovrebbero essere realtà dove viene sviluppato il guna della virtù, per permettere alla nostra identità spirituale di poter trascendere i vincoli materiali e realizzare, un giorno, la perfetta felicità. Krishna espone anche ad Uddhava la scienza dei tre Guna, e ciò sta a dimostrare l’enorme importanza che questa conoscenza esoterica riveste nell’ambito della vita umana. Mentre gli animali non possono coltivare conoscenza e spiritualità la forma umana offre questa straordinaria possibilità. Non sprechiamola seguendo le abitudini tamasiche di una società che ignora la reali influenze che il mondo materiale esercita sulla nostra psiche. Come disse Srila Prabhupada: “ La natura materiale non ci darà tanto facilmente la libertà.”

La natura materiale è progettata proprio per legarci ad essa, per renderci schiavi. Tutte le tradizioni esoteriche non hanno dubbi al riguardo. Ma questa schiavitù è stata una nostra scelta, così come può essere una nostra scelta uscire spezzare queste catene. La scienza e la pratica della Bhakti può portarci alla libertà. Ma molti hanno il terrore della libertà e preferiscono la sicurezza della schiavitù: schiavitù mentale, fisica, new age…Ma gli antichi alchimisti del Rinascimento sapevano di questa scienza e così indicavano i tre Guna: albedo, rubedo e nigredo. Sono le tre fasi della trasformazione, dall’oscurità del Tamas (nigredo) alla luminosità del Sattva (albedo). La tradizione alchemica  rinascimentale  paragonava i tre stati a tre animali: la fase oscura, il nigredo, al corvo, la fase attiva, il rubedo, alla fenice e la fase luminosa, l’albedo, al cigno.

Il cigno nell’esoterismo vedico è simbolo dell’anima, pura e perfetta, mai contaminata dall’illusione. Non a caso nella dottrina esoterica degli avatara Dio appare anche come cigno, Hamsa, ed illustra la conoscenza più segreta…Ma queste trasformazioni alchemiche hanno un solo scopo supremo: il raggiungimento della pietra filosofale. Si  tratti dell’alchimia cinese, indiana o europea, la ricerca era finalizzata alla realizzazione dell’identità divina del Sé. Ma cos’è questa pietra filosofale? Un testo vedico estremamente esoterico, l’Harinama Cintamani (La pietra filosofale dei Nomi Divini) ce lo rivela: “Il nome di Sri Krishna è la pietra filosofale eterna e trascendente.  La pietra filosofale può garantire ogni oggetto desiderabile.  La pietra filosofale del santo nome di Sri Krishna può dare a un materialista la religiosità, la ricchezza, il piacere dei sensi e la liberazione dal ciclo di nascita e morte. A un amante arreso esso offre il puro amore estatico per Krishna. Sri Krishna e il suo santo nome sono identici…”

Il canto dei nomi di Dio rappresenta dunque la vera pietra filosofale, in grado di soddisfare ogni desiderio, poiché, come indicano tutte le tradizioni mistiche, l’Assoluto vuole soddisfare i desideri dell’anima; se i desideri saranno materiali la pratica mistica del canto del nome produrrà esiti materiali, se il desiderio è spirituale il risultato sarà l’estasi eterna…Non a caso questa è la pratica che troviamo in varie tradizioni esoteriche. I Sufi affermano: “Egli mostra […] con l’esistenza dei Suoi Nomi l’esistenza dei Suoi attributi…[…] Non c’è ricordo esteriore del Nome, se non dall’intimo della contemplazione e della meditazione.” La scienza dei Nomi di Dio è la scienza spirituale più nascosta e il canto del Nome è strumento esteriore affinché il ricordo del Nome diventi il battito stesso del cuore del mistico, come espresso nei Racconti di un pellegrino russo.  A questo punto lo studio termina ed inizia il cammino…

Valentino Bellucci

 

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[:it]PAPIRI E STELE CON RITUALI DI INIZIAZIONE OSIRIDEA[:en]PAPYRUS AND STELAE WITH RITUAL INITIATION OSIRIDEA[:]

[:it]

egizi19

Testimonianze di personaggi che abbiano realmente eseguito i rituali di iniziazione ad Osiride ci sono pervenuti solo attraverso alcuni papiri e steli che vanno dal XV sec. a.C. al I sec. d.C.: l’analisi che fa Guilmot nel suo “Iniziati e riti iniziatici nell’antico Egitto” va posta in parallelo con il Capitolo 125 del Libro dell’uscire al giorno che abbiamo sopra concisamente riassunto; si vedrà così come i vari passaggi del rituale descritti in questi testi siano non sempre perfettamente coincidenti con le parole del Libro, nel quale probabilmente è conservata una forma più arcaica di iniziazione.

Precisiamo che Guilmot vede tutta l’operazione iniziatica come una sorta di travaglio psicologico mirante ad un “perfezionamento spirituale”, anche se non è chiaro cosa egli intenda per “spirituale”, basato sullo “scatenarsi dell’emotività”, ed il suo studio si basa, come egli stesso dice, “sull’unire la tecnica della filologia a quella della psicologia dell’irrazionale”: prese le giuste misure dalle sue personali interpretazioni, con le quali ovviamente non concordiamo, il lavoro svolto da Guilmot risulta davvero importante per la conoscenza dell’effettiva realizzazione di tecniche iniziatiche nell’antico Egitto.

osiride

I testi studiati da Guilmot sono tre: il più esteso è proprio il più recente (papiro T 32 di Leida, scritto per un sacerdote di nome Horsiesis, Profeta di Amon Râ, I sec. d.C.), esso quindi risente della corruzione causata dal diffondersi dei Misteri classici in Egitto, come d’altronde si osserva anche nella descrizione del rito fatta da Apuleio nelle sue Metamorfosi. Però il confronto con testi più antichi (iscrizioni nella tomba di Amenhotep, sacerdote di Amon sotto Thutmosi III nel XV sec. a.C. e sulla statua di Hor, profeta di Amon durante la XXII Dinastia nel IX-VIII sec. a.C.) consente di rilevare l’esistenza di un iter iniziatico parallelo tra i vari testi, anche se non perfettamente coincidente sia tra di loro sia con quello riportato nel Libro dell’uscire al giorno (Tabella comparativa in: a sinistra il Capitolo CXXV, a destra i punti salienti del rituale). Questo iter può essere distinto in cinque fasi:

  1. 1. L’accoglienza dell’iniziato nel “luogo sacro” identificato con un tempio di Osiride e in alcuni casi l’offerta di una corona di fiori o di fronde, quale si è ritrovata in alcune sepolture, come quella di Tut-ankh-Amon. Essa si identifica probabilmente con la corona del cap. XIX del Libro dell’uscire al giorno: “Tuo padre Atum ha posto questa corona di giustificazione sulla tua fronte affinché tu viva in eterno”; la corona, simbolo della regalità, è anche simbolo del potere e la sua forma circolare è segno del mondo trascendente. Anche Apuleio riceve una corona, ma alla fine del percorso iniziatico, una corona fatta di fronde di palma, le cui punte sono simbolo dei raggi solari: l’iniziato è divenuto un eguale di Râ.
  2. 2. La discesa sotto terra o il passaggio attraverso l’oscurità della sala ipostila del tempio da solo o accompagnato da sacerdoti o da Anubis stesso (un sacerdote vestito con la maschera del Dio), sostituito in alcuni dei testi riportati da Guilmot dalla trasmissione di segreti o dalla lettura di testi, che egli suppone contengano formule iniziatiche. Il significato del “passare sotto terra” o comunque attraverso un luogo oscuro è simbolo della morte che l’iniziato deve subire per rinascere. Un dipinto di epoca tarda raffigura il defunto vestito di bianco, segno di purità rituale, con in mano una corona e al suo lato sinistro Anubis che lo accoglie tra le braccia, mentre a sinistra vi è un sarcofago, segno della parte corporea che il defunto lascia dietro di sé; analogamente nel Libro di ciò che è nell’Amduat l’Ora XII si conclude, come si è visto, con la mummia di Osiride abbandonata sulla parete dell’Amduat mentre il Sole-Iniziato esce in forma di Khepri tra le braccia di Atum.
  3. 3. L’ingresso nella Stanza sotterranea o in un luogo analogo e la “giustificazione” dell’iniziato che diviene maakheru, “giusto quanto a voce”.
  4. 4. La rigenerazione, che si attua attraverso un bagno purificatore in un bacino, quale si trova accanto a tutti i templi o, nel caso di Abydos, probabilmente nell’anello di acqua che circonda la piattaforma centrale, di cui diremo avanti.
  5. 5. La rivelazione del Dio e l’illuminazione trascendentale che ne consegue e che si raggiunge attraverso la visione del corpo del Dio o del reliquiario della sua testa o del suo corpo nel sarcofago, atto che costituisce il momento culminante e finale del rituale.

Come si può vedere, la corrispondenza con il testo del Libro dell’uscire al giorno non è perfetta: anche lì abbiamo azioni rituali simili e con analogo significato, ma in ordine diverso e con alcuni passaggi che sono forse più coerenti con quanto ci si attende da un rituale iniziatico, ad esempio la purificazione dovrebbe precedere e non seguire la giustificazione, la quale dovrebbe essere il punto di arrivo del rito, mentre nei testi studiati da Guilmot essa è sostituita da una specie di illuminazione che giunge a seguito della visione di oggetti sacri, il che è analoga a quella descritta ad esempio nei Misteri Eleusini.

tempiosiride

Il luogo in cui si svolgeva l’iniziazione nel papiro di Leida tradotto da Guilmot è il tempio di Osiride ad Abydos, nel quale il culto del Dio aveva origini antiche, risalenti alle prime Dinastie, ed in particolare la parte nota come Osireion. Si tratta del settore, indipendente dal tempio vero e proprio e situato a nord di esso, costruito da Sethi I: si entra tramite un corridoio in discesa diretto da ovest ad est (segno che la rigenerazione seguiva il percorso del Sole-Râ) e lungo circa cento metri, le cui pareti portano incisi testi dei Libri dei Morti; alla fine del corridoio si giunge in una sala di forma rettangolare, al cui centro si erge una piattaforma circondata da un anello di acqua, per accedere alla quale vi sono due gradinate sui lati corti.

Sulla piattaforma vi sono tutt’ora due cavità, le quali si ritiene servissero a contenere il sarcofago del Dio e la testa di Osiride, la reliquia più importante tra tutte quelle riferite ad Osiride: i due oggetti costituivano il centro focale dell’illuminazione come la descrive Guilmot. Attorno all’Osireion, vi erano alberi di Persea, la pianta sacra simbolo di immortalità, e nel papiro di Leida trascritto da Guilmot si dice espressamente: “Tu arrivi nella stanza sotterranea, sotto gli alberi (sacri). Presso il Dio Osiride (ecco)ti giunto, colui che dorme nel suo sepolcro. Allora nel luogo santo ti è dato il titolo di Giustificato” (pag. 84).

Questa descrizione fa pensare all’esistenza di un tumulo funerario eretto sopra l’Osireion sul quale dovevano essere piantati gli alberi di Persea, anche se alcune ricostruzioni fanno invece pensare che esso avesse un tetto aperto al centro da un grande lucernario.

Tratto da Anemos di Leonardo Lovari – Harmakis Edizioni – 2015

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egizi19

Recollections of people who have actually performed the initiation rituals to Osiris have survived only through some papyrus and stems ranging from the fifteenth century. B.C. to the first century. d.C .: analysis that makes Guilmot in his “Initiates and initiation rites in ancient Egypt” should be placed in parallel with Chapter 125 of the Book of going a day we have briefly summarized above; you will see the ritual as well as various steps in these texts are not always perfectly coincide with the words of the Book, which is probably preserved a more archaic form of initiation.

Please note that Guilmot sees the whole operation initiation as a kind of psychological suffering aimed at a “spiritual perfection”, although it is not clear what he means by “spiritual”, based on “unleashing of emotion”, and its study based, as he himself says, “on joining the philology technique to that of irrational psychology”: the right measures taken by his personal interpretations, with which of course we do not agree, the work done by Guilmot is really important for the knowledge of the actual implementation of technical initiation in ancient Egypt.

 

osiride

The texts studied by Guilmot are three: the largest is just the latest (papyrus 32 T Leiden, written for a named Horsiesis Priest, Prophet of Amon Ra, the first century AD.), So it is affected by the corruption caused by the spread Mysteries of the classics in Egypt, as indeed is also observed in the description of the ritual made by Apuleius in his Metamorphoses. But the comparison with older texts (inscriptions in the tomb of Amenhotep, the priest of Amon under Thutmose III in the fifteenth century BC. And the statue of Hor, prophet of Amon during the XXII Dynasty in the IX-VIII century BC.) Is used to detect the ‘existence of a parallel initiation process among the various texts, even if they do not match either among themselves or with that reported in the Book of Dead (in comparative table: Chapter CXXV left, right, the highlights of the ritual ). This process can be divided into five phases:

1. The acceptance of the initiate in the “holy place” identified with a temple of Osiris and in some cases the offer of a crown of flowers or foliage, which is found in some graves, like that of Tut-ankh- amon. It probably identifies with the crown cap. XIX of the Book of going a day: “Your father Atum has asked this of justification crown on your brow you will live forever”; the crown, symbol of royalty, is also a symbol of power and its circular shape is a sign of the transcendent world. Apuleius also receives a crown, but at the end of the initiatory path, a crown made of palm fronds, whose tips are a symbol of sun rays: the initiate has become an equal of Ra.
2. The descent below ground or passage through the darkness of the pillared hall of the temple alone or accompanied by priests or by Anubis itself (a priest dressed with the God of the mask), replaced in some of the texts reported by Guilmot from transmitting secret or by reading texts, which he supposed to contain initiation formulas. The meaning of “go underground” or otherwise through a dark place is a symbol of death that the initiate must undergo in order to be reborn. A late antique painting depicts the deceased dressed in white, a sign of ritual purity, holding a crown and his left side Anubis who welcomes him into his arms, while on the left there is a sarcophagus, a sign of the body of the deceased He leaves behind; similarly in the Book of what is now the nell’Amduat XII ends, as seen with the Osiris mummy abandoned on dell’Amduat wall while the Sun-Initiate comes out in the form of Khepri in the arms of Atum.
3. Entry into the underground room, or in a similar place and the “justification” of the initiate who becomes maakheru, “just as a voice.”
4. The regeneration, which occurs through a purifying bath in a basin, which is located next to all the temples or, in the case of Abydos, probably in the ring of water surrounding the central platform, of which we shall speak later.
5. The revelation of God and the transcendent light that goes with it and that you reach through the body of the vision of God or of the reliquary of his head or his body in the tomb, an act which constitutes the culminating and final moment of the ritual.

As you can see, the correspondence with the text of the Book of going a day is not perfect: there too we share similar rituals and with a similar meaning, but in a different order and with some passages that are perhaps more consistent with what one would expect as an initiation ritual, such as the purification should precede and not follow justification, what should be the culmination of the rite, while in the texts studied by Guilmot it is replaced by a kind of enlightenment that comes as a result of the vision of objects sacred, which is similar to that described for example in the Eleusinian mysteries.

tempiosiride

The place where the initiation takes place in the papyrus of Leiden translated by Guilmot is the temple of Osiris at Abydos, in which the worship of God had ancient origins, dating back to the first dynasties, and particularly the part known as Osireion. It is the sector, independent of the real temple is located to the north of it, built by Seti I: you enter through a corridor in direct descent from the west to the east (a sign that the regeneration was following the path of the Sun-Ra) and long about a hundred meters, the walls of which bear engraved texts of the Books of the Dead; at the end of the corridor is reached in a rectangular room, the center of which stands a platform surrounded by a ring of water, for access to which there are two tiers on the short sides.


On the platform there are still two cavities, which is believed to serve to contain the tomb of God and the head of Osiris, the most important relic of all those related to Osiris: the two objects were the focal point of enlightenment as He describes Guilmot. All’Osireion around, there were trees of Persea, the sacred plant a symbol of immortality, and in the papyrus of Leiden transcribed by Guilmot expressly says: “You arrive in the underground room, under the trees (sacred). At the God Osiris (that) you come, the one who sleeps in his tomb. Then in the holy place it is given to the title of Justified “(p. 84).


This description suggests the existence of a burial mound erected over the Osireion had to be planted on which the Persea trees, although some reconstructions do however think that it had an open roof in the middle by a large skylight.


Taken from Anemos Leonardo Lovari – Harmakis Edizioni – 2015

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[:it]Memorie di una Viaggiatrice dello Spirito[:en]Memories of a traveler of the Spirit[:]

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Il libro è un’autobiografia nella quale l’autrice ripercorre tutti i momenti fondamentali del suo cammino spirituale: gli incontri con diversi maestri e con gruppi di diverse scuole esoteriche, le prove iniziatiche, i viaggi esteriori ed interiori, le piccole e grandi realizzazioni spirituali. L’autrice racconta come il cammino spirituale abbia cambiato completamente la sua vita sin da quando, appena adolescente, si è trovata a vivere parallelamente alla crescita reale la sua crescita spirituale. Vengono riportati integralmente gli insegnamenti orali ricevuti, che le hanno tracciato una
mappa di quel cammino che l’ha condotta ad esplorare l’Ignoto.

L’antroposofia, il Raja-Kriya yoga, l’ermetismo e l’alchimia, in una pratica assidua e costante, le hanno rivelato profonde analogie con lo sciamanesimo di Castaneda e la Quarta Via di Gurdjieff: percorsi che, pur apparentemente diversi, sono confluiti coerentemente in un cammino unico e personale, lungo il quale ogni incontro, ogni libro e ogni insegnamento hanno avuto importanza. Gli insegnamenti dei vari maestri si sono via via riuniti come ad essere frammenti destinati a formare un quadro completo e ricco di significati. E l’Ignoto, sempre imprevedibile e sorprendente, ha condotto l’autrice lungo sentieri prima inimmaginabili. Se diventa pratica costante, vissuta in ogni attimo dell’esistenza, la spiritualità si intreccia profondamente con la vita, dando origine a misteriose coincidenze e incredibili esperienze, delle quali viene data ampia testimonianza in questo libro.

HERMELINDA
Memorie di una Viaggiatrice dello Spirito
Sulla via dello yoga, tra i sentieri dell’ermetismo, dell’alchimia e dello sciamanesimo.
Harmakis Edizioni
Collana: Saggi
Formato: 200 x 280
Confezione: Brossura
Pagine: 384
Prezzo: 29,00
ISBN 978-88-98301-25-6

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The book is an autobiography in which the author recounts all the key moments of his spiritual journey: meetings with various teachers and groups of different esoteric schools, the initial trials, the outward and inward journeys, small and great spiritual realizations . The author tells how the spiritual path has completely changed his life ever since, as a teenager, has had to live alongside the real growth his spiritual growth. They shall be reproduced verbatim the oral teachings received, which have drawn a map of the journey that has led her to explore the unknown.


Anthroposophy, the Raja-Kriya yoga,  shamanism and alchemy, in a constant and assiduous practice, revealed the profound similarities with shamanism of Castaneda and the Fourth Way Gurdjieff: paths which, although seemingly different, are converged consistently in a unique and personal journey, along which every encounter, every book and every teaching they have mattered. The teachings of various masters have gradually gathered as fragments to be designed to form a complete and full of meanings. And the unknown, always unpredictable and surprising, he led the author along paths previously unimaginable. If it becomes constant practice, experienced in every moment of existence, the spirituality is deeply intertwined with life, giving rise to mysterious coincidences and unbelievable experiences, which are given ample testimony in this book.


HERMELINDA
Memories of a traveler of the Spirit
On the path of yoga, through the paths of hermeticism, alchemy and shamanism.
Harmakis Editions
Series: Essays
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Una civiltà evoluta? di Valentino Bellucci

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Una civiltà evoluta?

 Mi sono sempre chiesto da dove sia nata tutta questa sete di sangue e di violenza dell’uomo europeo; altre civiltà ne sono esenti, ancora oggi, e vivono in modo semplice e pacifico, in armonia col cosmo. La studiosa della Preistoria, Marija Gimbutas, scoprì che circa 5000 anni fa delle tribù provenienti dall’Europa medio-orientale invasero le culture del Mediterraneo: “…queste tradizioni millenarie furono troncate di netto: città e villaggi furono rasi al suolo, sparì la magnifica ceramica dipinta, così pure gli altari, gli affreschi, le sculture, i simboli…[…] Le culture antico-europea e Kurgan erano agli antipodi l’una dell’altra. Gli antichi europei erano orticoltori sedentari, inclini a vivere in grandi agglomerati ben pianificati. L’assenza di fortificazioni e di armi attesta l’indole pacifica di questa civiltà egualitaria, che era matrilineare e matrilocale. Il sistema Kurgan era composto da unità di mandriani patrilineari, che vivevano in piccoli insediamenti stagionali e allevavano i loro animali in vaste aree.

Un’economia era basata sulla coltivazione, l’altra sull’allevamento e la pastorizia; le ideologie a esse sottese erano opposte. Il sistema di credenze antico-europeo si concentrava sul ciclo agricolo di nascita, morte e rigenerazione, incarnato dal principio femminile, una Madre Creatrice. L’ideologia Kurgan, come si evince dalla mitologia comparata indo-europea, esaltava gli dèi virili, guerrieri eroici, patroni del fulmine e del cielo…”[1]   C’è del vero nelle scoperte archeologiche e etnologiche della Gimbutas, ma manca una visione più ampia, la visione ciclica. Se le tribù Kurgan hanno invaso le altre culture, pacifiche e dedite all’agricoltura (e quindi sostanzialmente vegetariane), sterminandole – ciò è successo non solo a causa della “addomesticazione del cavallo [che] sembra aver prodotto uno squilibrio tra l’approvigionamento di terreni di pascolo nelle steppe della Russia meridionale e il bisogno di cibo per le mandrie che diventavano rapidamente sempre più numerose.”[2] ma soprattutto a causa di una visione della natura come parte separata, da dominare e sottomettere. I gruppi Kurgan avevano già una struttura sociale che avvalorava il più forte e rituali con sacrifici umani…E avevano perso una visione del tempo ciclica, che le culture della Dea Madre invece seguivano; è con una visione della propria storia come linea separata dalle ciclicità del cosmo che nasce l’europeo violento, dominatore, colonialista, come ha intuito acutamente Jean Servier: “ Differiamo dalle civiltà tradizionali perché vogliamo concepire la storia come un corso lineare…[…] …per esse infatti il passato non è insondabile né l’avvenire misterioso, poiché entrambi sono pagine di uno stesso libro. Tutti gli uomini hanno coscienza di essere i segni scritti sulle pagine di questo libro, foglie di uno stesso Albero della Vita…”[3] Ma dai Kurgan in poi l’Europa sceglie l’Albero della Morte, con tutte le continue guerre per il potere che la storia “lineare” ci racconta, con tutti i genocidi, fino alla situazione attuale, dove all’uomo occidentalizzato non resta che rivolgere quella follia distruttiva su se stesso; il disastro ecologico è quindi il culmine di un tipo umano, che da millenni vive in una costante separazione psichica dal resto dell’armonia cosmica…In fondo gli allevamenti intensivi non potevano che essere la logica follia di una visione dell’animale come oggetto, che già i Kurgan avevano abbracciato. Ma questo disastro rientra anch’esso in un ciclo.

Questo è ciò che gli studiosi stessi ignorano, poiché rifiutano la storia ciclica contenuta nei Purāna, testi enciclopedici di una civiltà avanzatissima sotto ogni aspetto. L’umanità attraversa quattro epoche, con diverse caratteristiche, e l’epoca attuale è denominata Kali-Yuga, cioè età (yuga) perdente (kali), dove domina la violenza e l’autodistruzione. E tale epoca, secondo i calendari vedici, ha avuto origine proprio 5000 anni fa, quando la Gimbutas fa risalire la discesa devastante dei Kurgan…coincidenza? No, semplicemente il cosmo è, appunto, un ordine e in tale ordine le epoche si avvicendano, nel loro eterno ciclo, fino alla dissoluzione dell’universo, anch’essa parte di un ciclo più grande. Quindi non basta, come afferma Riane Eisler, “il passaggio dall’androcrazia alla gilania [che] contribuirebbe a far cessare la politica di dominio e l’economia di sfruttamento”[4], poiché  recuperare il ‘femminile sacro’ senza avere un diverso paradigma del ‘maschile sacro’ è ugualmente alienante e inefficace, come le varie correnti del femminismo e dell’ecologismo hanno dimostrato. Per uscire dall’incubo del Kali-yuga occorre recuperare la radice stessa della ciclicità sacra e la conoscenza immensa che la civiltà vedica ci offre…conoscenza materiale e spirituale insieme. Ho altrove[5] dimostrato che l’antica civiltà vedica non è stata il prodotto delle ‘invasioni ariane’ (sempre legate al paradigma Kurgan) ma è stata una civiltà planetaria dove maschile e femminile erano in perfetta armonia e ogni ordine sociale (varna) serviva all’equilibrio del Tutto.

Nei capitoli di questo saggio ho analizzato i vari aspetti della degenerazione del Kali-yuga, degenerazione che investe la scienza, l’arte, la religione, la medicina…Lo studioso Josipovici così ha sintetizzato la situazione attuale: “ Ed ecco il risultato: trascinato, poi dominato da bisogni materiali sempre nuovi, schiavo di leggi economiche incontrollabili, costruttore di industrie che distruggono la vita, accade che la natura torturata non solo abbia smesso di dargli il minimo sostegno, ma gli si rivolti contro…”[6] Tutti i popoli del pianeta hanno guardato con tristezza alla ‘follia dell’uomo bianco’, follia che non sembra arrestarsi ma accelerare; nel Bhagavata Purāna questa epoca è descritta così: kaler dosa-nidhe, ovvero: un oceano di errori; il testo vedico descrive nel dettaglio la degenerazione fisica, morale, politica, economica e persino ambientale! Eppure abbiamo la possibilità di una via d’uscita, se lo vogliamo.

Valentino Bellucci



[1] M. Gimbutas, Kurgan. Le origini della cultura europea, Medusa, Milano 2010, pag. 72 e 73.

[2] Ivi., pag. 74.

[3] J. Servier, L’uomo e l’invisibile, op. cit., pag. 397 e 401.

[4] R. Eisler, Il Calice e la Spada. La civiltà della Grande Dea dal Neolitico ad oggi, Forum, Udine 2012, pag. 352.

[5] Cfr. V. Bellucci, Le strutture sociali del varnāshrama-dharma, Solfanelli, Chieti 2014.

[6] J. Josipovici, Il fattore “L”, Mediterranee, Roma 1976, pag. 59.